DON FLORIANO, In balia delle forze cieche e violente di un tornado, I

Al primo pomeriggio del 31 ottobre e, poi, del 1° novembre, ho attraversato il villaggio di Coi (non sono sceso a Col), per osservare quant’era accaduto durante le notti precedenti. Avevo la sensazione di attraversare uno spazio sconosciuto, desolato, dal quale gli abitanti fossero fuggiti, mentre il cielo continuava a minacciare e mandare pioggia e l’aria era attraversata da raffiche di vento gelido e sferzante, che m’avrebbero costretto ben presto a rientrare. Solo al pomeriggio del 1° novembre, ricomparve qualche raggio di sole, che dava subito la sensazione di star meglio, di respirare, ed era bello guardare verso Costa, nei colori dell’autunno, lievemente soleggiato.

Di fatto, i danni per Coi e, in sostanza, pure per gli altri paesi della Val di Zoldo sono stati:

1) Il sollevamento di lamiere ed assi, poche o tante, dai tetti dei fienili e altri danni agli stessi, nonché a qualche casa d’abitazione;

2) Un’enorme colata di ghiaia dalle casere al villaggio, che ha bloccato il transito per un’intera giornata, fino alla rimozione di buona parte del materiale ad opera di ammirevoli operai comunali e di qualche volontario;

3) L’abbattimento di piante d’alto fusto, da frutto e da giardino;

4) L’interruzione completa della corrente elettrica da lunedì sera a giovedì mattina, con tutte le conseguenze che ciò ha comportato, tra le quali l’impossibilità dei rifornimenti alle pompe di benzina, anch’esse azionate dalla corrente elettrica;

5) L’interruzione delle linee telefoniche, sia fissa che dei cellulari, internet compreso, che soltanto sabato sera 3 c.m. hanno ricominciato a funzionare; e non sono descrivibili sentimenti e disagi che l’impossibilità di comunicare creava sia a noi di Coi come a chi ci voleva contattare;

6) La chiusura delle strade di uscita/entrata dalla valle, per il verificarsi di smottamenti, restringimento delle strade ad una corsia e pericolo di caduta massi e l’erosione sotto le strade stesse, in alcuni tratti, a causa della spinta violenta delle acque nel torrente Maè, assai ingrossato. Il divieto di transito ha dato la sensazione di essere in una specie di prigione, degli esserini che la Natura avrebbe potuto schiacciare da un momento all’altro, dei topi venutisi a trovare chiusi in una trappola.

La nota di fondo, in valle, in questo giorni è stata il silenzio; il sentimento dominante la paura, che schiacciava il cuore e sollevava nella mente domande martellanti, senza risposta. Quando, dopo quel grande silenzio, si sono sentiti non più i rombi secchi del vento ma quelli rassicuranti di qualche elicottero in ispezione dall’alto, abbiamo sentito che la vita cominciava, poteva ricominciare, a salire dal precipizio e dal pericolo nel quale, all’improvviso e contro ogni previsione, dopo un bel mese d’ottobre, era stata trascinata. La paura ha cominciato a sciogliersi; ma bisognerà ricostruire, molto, fuori e dentro, saper rispondere in modo positivo e convinto alla domanda se valga la pena restare o se, oggi come oggi, le valli di montagna possano essere solo dei luoghi momentanei di villeggiatura e di svago, ma non offrano garanzie sufficienti di vita almeno normale, ché difficoltosa sarà in ogni caso, a chi non vuol fuggirle, più che ancora lasciarle: fuggirle e non tornare mai più! Che importa la bellezza dei paesaggi a chi è nell’isolamento, incapace di chiamare un’ambulanza in caso di bisogno, neppure un medico? Come poter vivere in queste condizioni?

Sia quel che sia, servizi come quello elettrico e telefonico, di approvvigionamento alimentare e farmaceutico dovrebbero essere dati di fatto, garantiti! Che società civile è mai quella in cui alcune vallate, interi paesi, famiglie, lavoratori, persone con le più varie esigenze, possono venirsi a trovare, in massa, privati di tutto, affidati a sé stessi, ad un’attesa che la situazione si sblocchi, senza sapere se e quando mai sarà? Non è accettabile che esistano intere zone montane così fragili; che in questa tanto esaltata Europa esistano marginalità da vecchio terzo mondo! Che gli emigranti rientrino in Italia per trovare un’Italia così!

Le prime nove fotografie si riferiscono al tabià dei Rizzardini Ogióin, il primo che si incontra salendo a Coi da Mareson. Si vedono alcuni punti del tetto (quelli visibili stando a terra, come, del resto, in tutte le altre fotografie) dai quali il vento ha sollevato le lamiere e, poi, tali lamiere a terra o vicino al tabià d’abitazione del prof. Francesco Conconi, a circa cento metri di distanza. Si vede pure come siano state scombussolate tutte le assi di parete e alcune si siano persino staccate. Si può immaginare a stento quale forza sia stata necessaria al vento per far ciò!

Andando un po’ oltre, si vedeva una palizzata che il vento, incredibilmente, era riuscito a sradicare e gettare a terra.

Parte del tetto del tabià Pellegrini Beretin, dal quale il vento ha fatto volare le lamiere, pur poste solo pochi anni fa. Al vento della tromba d’aria basta un buchetto per infilarsi tra le lamiere e le assi e staccare quelle da quelle; si pensi che forza deve avere il vento in quei pochi centimetri nei quali s’infila!

All’arrivo sulla piccola piazza di Coi, sono stato accolto da una lamiera, volata sin qui dal tetto di qualche abitazione circostante.

Seguono, poi, sei fotografie del tabià Piva, il più danneggiato, dal quale sono saltate in aria non solo le lamiere, ma anche alcune assi e persino una trave!

Colpito duro anche il fienile dei Pellegrini Vésco, come si vede dalle seguenti cinque fotografie, con spargimento di lamiere ed assi su tutta l’area circostante.

Nelle quattro foto seguenti si vedono i fili della corrente elettrica che, staccati dal vento o da qualche lamiera che li aveva colpiti, penzolano pericolosamente in aria o appoggiati ai rami di un albero da frutto.

Nella successiva fotografia si vedono il tabià degli eredi di Remigio Panciera con le balconate sfondate (ma le due sopra erano già state sfondate in precedenza); dietro il tabià dei Rizzardini Paléta, ora in parte Sartori, con alcune lamiere sollevate. Nella fotografia subito dopo, ancora il tabià Panciera. Poi una nella quale si vede il tabià Rizzardini Paléta e Sartori con il grande portone posteriore aperto di violenza dal vento, un’asse a terra e, su un fianco, una lamiera.

Altre quattro fotografie, le seguenti, mostrano il tabià già di Donato Piva con un portone superiore staccato e gettato a terra, lì vicino un’asse del tetto (chissà com’è!).

Infine dieci fotografie del tabià degli eredi di Giovanni Rizzardini Duanùž (soprannominato il Nane Tàgia), con lamiere staccate dal tetto e fatte volare fin oltre cento metri di distanza (altre fotografie su questo fienile e su altri danni del tornado saranno pubblicato in un successivo articolo).

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