SEMI, Città per chi le abita

Articolo del prof. Giovanni Semi, pubblicato su «Il Mulino», dell’omonima editrice, fascicolo 3, maggio-giugno 2017, pp. 395-401. Giovanni Semi è professore associato di Sociologia all’Università di Torino. Nelle sue ricerche si è occupato di fenomeni migratori, mutamenti della struttura sociale italiana e trasformazioni urbane. Tra i suoi ultimi lavori, Gentrification. Tutte le città come Disneyland?(2015) e Fronteggiare la crisi. Come cambia lo stile di vita del ceto medio (con R. Sassatelli e M. Santoro, 2015), entrambi usciti al Mulino. Qui, di seguito, il testo in PDF ed una trascrizione delle prime parti dell’articolo.

Da qualche tempo il concetto di gentrification è entrato nel dibattito e nel lessico italiani, dopo diversi anni di diffusione nell’esoterico dibattito tra specialisti.

Alcuni autori sostengono che vi sia una ragione storica e geografica ben precisa alla base di questo ritardo: il fatto che la realtà urbana italiana mal si integri con un fenomeno che, non a caso, è emerso nel mondo anglosassone e proprio in questo mondo di mondi, che vagamente chiamiamo ora anche Global North, si sia diffuso e abbia sviluppato alcune sue peculiarità.

Se provassimo a riassumere in poche parole cosa intendiamo per gentrification oggi, il rimando tutto sommato più valido sarebbe anche quello più ambiguo e ricondurrebbe alla definizione di Hackworth, secondo cui si tratterebbe della «produzione dello spazio urbano per utenti progressivamente più ricchi» (Postrecession gentrification in New York City, «Urban Affairs Review», 37, 6/2002, p. 815).

Diversamente dunque da altre definizioni più stringenti, che di volta in volta puntano il dito sui mercati immobiliari e la loro rilevanza all’interno del capitalismo finanziario globale, sulle sostituzioni di popolazioni vulnerabili da parte di diverse sezioni del ceto medio, sulle epidemie di sfratti o sulla ri-conquista classista della città, con questa definizione si racconta una dinamica storica che fa parte di un ciclo ben noto. Si tratta infatti di un’evoluzione, che potrebbe essere anche lineare per quel che ne sappiamo, che ha portato le città prima di tutto occidentali a uno sviluppo industriale dapprima, seguito dalle deindustrializzazioni poi, per giungere infine alla condizione attuale di post-. A seconda dei contesti geografici, storici e delle peculiarità urbane, moltissime città vengono descritte in maniera sensata con questa tripartizione e la gentrification ne racconta bene sia la seconda sia la terza fase. L’abbandono di molte aree della città fordista è infatti stato una strategia che ha generato larghe sacche di abbandono e crisi che, a loro volta, si sono rivelate straordinarie opportunità di in vestimento e rigenerazione nei decenni successivi, innescando quella forma di arricchimento urbano nota anche, appunto, come gentrification. O così almeno pensa la gran parte degli studiosi di questo fenomeno.

Le città italiane, come avranno già intuito molti lettori, si inseriscono in questa dinamica con una certa difficoltà. Se infatti lasciamo da parte per un istante quelle compiutamente fordiste, Genova, Milano e Torino innanzitutto, dove l’impronta della fabbrica e del mondo operaio hanno marcato chiaramente territori e abitanti in modo non troppo dissimile dagli omologhi occidentali, molte altre città hanno retroterra diversi pur non essendo per questo meno «urbane» o «italiane». Se pensiamo a Roma o a Napoli, ad esempio, difficilmente le potremmo caratterizzare come città industriali, soprattutto la prima, e al tempo stesso si tratta delle città che forse maggiormente hanno contribuito a definire l’immagine internazionale dell’urbanesimo italiano, e comunque in maniera più significativa delle città fordiste del Nord del Paese.

Dobbiamo perciò essere cauti nell’inferire l’esistenza di un unico modello di urbanizzazione e dunque di una sola forma di gentrification, perché la varietà delle esperienze urbane non è mai stata riconducibile a un’unica forma cittadina, un’unica velocità di sviluppo o a un mix statico […].

***