DON FLORIANO, La conferenza del 15 novembre 2018 sulla Prima Guerra Mondiale

Intervento di don Floriano

Buonasera!

Un secolo fa terminava la Prima Guerra Mondiale, detta per antonomasia «la Grande Guerra», da cui sarebbero scaturiti, per l’Europa ed altre aree del mondo, profondi mutamenti sociali, politici, istituzionali, etici e identitari.

Per rendersi conto, sia pure in base a minimi accenni, della svolta epocale compiuta da tale conflitto, basti accennare a cinque conseguenze:

1) La perdita di ben oltre dieci milioni di uomini, celibi o padri di famiglia, resa più tragica dalle nuove armi o «tecnologie di morte», allora introdotte;

2) Il dissesto di intere economie e una crescita enorme del debito di Stato, con conseguenze ad effetto domino;

3) Il crollo (almeno allora, per il futuro non si sa) di ben quattro imperi: quello asburgico, quello turco, quello russo e quello tedesco;

4) La comparsa sulla scena politica mondiale degli Stati Uniti, a fianco e in concorrenza (forse più apparente che reale) con la Gran Bretagna;

5) L’affermarsi, sempre più marcato, nelle politiche nazionali di organizzazioni partitiche di massa, sino allora inesistenti e la cui spinta trainante e forza ideale, pur parecchio mutata, per certi aspetti, è tutt’altro che conclusa.

La Prima Guerra Mondiale fu un evento di politica internazionale impegnativo anche in ordine di tempo. Occupò, infatti, nel suo complesso oltre quattro anni e tre mesi di sole azioni belliche dirette, dal  28 luglio 1914 all’11 novembre 1918; mentre per il regno d’Italia essa andò formalmente dal 24 maggio 1915 al 4 novembre 1918, ma tutti sanno ch’essa era di fatto in preparazione già da molti anni prima, con la costruzione per ordine del Governo, anche sulle nostre montagne dolomitiche, di nuove strade militari e trincee, che si giustificavano solo in previsione di un attacco, pur sempre ufficialmente negato; non si aspettava altro che un pretesto – si diceva e si dice ma non è esatto dir così – perché il conflitto scoppiasse.

Eletto Papa il 3 settembre 1914, quindi ad appena 37 giorni dall’inizio del conflitto bellico, Benedetto XV parlò subito della guerra, definendola «suicidio dell’Europa», espressione che egli riprese in numerosi documenti ufficiali, compresa la celebre «Lettera ai Capi dei popoli belligeranti» del 1° agosto 1917, nella quale, avanzando le sue proposte di pace, scrisse il celebre passo: «Nel presentarle [=dette proposte di pace] pertanto a Voi, che reggete in questa tragica ora le sorti dei popoli belligeranti, siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle accettate e di giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage». Si osservi che questa lettera venne allora censurata dai Governi, ai quali interessava la guerra e non la pace; e si osservi pure che Benedetto XV parla sempre, nella lettera, di «popoli belligeranti» e non di «Stati belligeranti», per una sorta di riguardo nei confronti delle istituzioni, dal momento che allora la Santa Sede non era ancora riconosciuta da tutti come Stato, come sarebbe avvenuto poi, quasi per gratitudine da parte italiana, con i Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929.

Il nostro incontro si richiama in modo esplicito a tale lettera e, nel titolo, ci pone e propone la domanda se la Prima Guerra Mondiale sia stata realmente, come diceva quel Papa, un’inutile strage. Il sottotitolo della conferenza introduce le risposte a tale interrogativo con queste parole: «A cent’anni dalla vittoria nella Grande Guerra storie, valori e mito per l’identità nazionale». Sono parole forti, che partono da un dato di fatto, la vittoria militare, sulla quale comunque il sottotitolo non si sofferma, per puntar dritto l’attenzione all’identità nazionale, invitandoci ad analizzare storie particolari, valori generali perenni e idealizzazioni, fino a farne dei miti cioè dei falsi storici, di quella vittoria e del senso di quel vissuto collettivo che fu la Grande Guerra.

Faccio osservare che, a differenza di quanto comunemente si crede e si dice, la definizione di «inutile strage» non ha, nella lettera del Papa, un senso generale, quasi che ogni guerra debba essere, come tale, un atto inutile o una strage, o, per aggravante, entrambe le cose assieme. Benedetto XV contestualizza: «Questa tremenda lotta ogni giorno più apparisce inutile strage»; il che è come dire: «Rebus sic stantibus, questa specifica guerra è o, meglio, è diventata un’inutile strage». Il Papa sostiene la sua affermazione sul fatto che, da come stanno andando le cose, appare chiaro «la via da seguire per giungere ad una pace stabile e dignitosa per tutti» non poter continuare ad essere il mero ricorso alla «forza militare» e «alla forza materiale delle armi [subentri] la forza morale del diritto».

Con discrezione ma anche chiarezza, il Papa prosegue formulando cinque proposte concrete, che, usando le sue parole, possiamo sintetizzare così:

1) «Un giusto accordo di tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti secondo norme e garanzie da stabilire, nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento dell’ordine pubblico nei singoli Stati»;

2) Il ricorso «[al]l’istituto dell’arbitrato con la sua alta funzione pacificatrice, secondo e norme da concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o di sottoporre le questioni internazionali all’arbitro o di accettarne la decisione»;

3) La rimozione di «ogni ostacolo alle vie di comunicazione dei popoli con la vera libertà e comunanza [=libero transito] dei mari»;

4) Una «intera e reciproca condonazione» dei «danni e spese di guerra», «giustificata del resto dai benefici immensi del disarmo; tanto più che non si comprenderebbe la continuazione di tanta carneficina unicamente per ragioni di ordine economico. Che se in qualche caso vi si oppongano ragioni particolari, queste si ponderino con giustizia ed equità»;

5) «La reciproca restituzione dei territori attualmente occupati».

Su quest’ultimo punto, decisivo, Benedetto XV scende nei particolari: «Da parte della Germania evacuazione totale sia del Belgio, con la garanzia della sua piena indipendenza politica, militare ed economica di fronte a qualsiasi Potenza, sia del territorio francese: dalla parte avversaria pari restituzione delle colonie tedesche. Per ciò che riguarda le questioni territoriali, come quelle ad esempio che si agitano fra l’Italia e l’Austria, fra la Germania e la Francia, giova sperare che, di fronte ai vantaggi immensi di una pace duratura con disarmo, le Parti contendenti vorranno esaminarle con spirito conciliante, tenendo conto, nella misura del giusto e del possibile, come abbiamo detto altre volte, delle aspirazioni dei popoli, e coordinando, ove occorra, i propri interessi a quelli comuni del grande consorzio umano. / Lo stesso spirito di equità e di giustizia dovrà dirigere l’esame di tutte le altre questioni territoriali e politiche, nominatamente quelle relative all’assetto dell’Armenia, degli Stati Balcanici e dei paesi formanti parte dell’antico Regno di Polonia, al quale in particolare le sue nobili tradizioni storiche e le sofferenze sopportate, specialmente durante l’attuale guerra, debbono giustamente conciliare le simpatie delle nazioni».

I Governi, come sappiamo, oltreché censurare la lettera del Papa, la considerarono inopportuna e fomentatrice di un sentimento definito disfattismo, ossia di ostilità preconcetta alla guerra.

Ma non tutti, deposte le armi, diedero di quella lettera un giudizio negativo. Già nel gennaio 1918, cioè due mesi dopo la fine del conflitto, il presidente americano Woodrow Wilson (che aveva vinto le elezioni del 1916, sulla base di una promessa che non poteva mantenere: la neutralità degli Stati Uniti) ne faceva, in pratica, un ottimo elogio, esponendo al mondo i suoi famosi «Quattordici punti» per la pace e l’ordine globale. Fra quei punti, spiccano i seguenti:

1) La riduzione degli armamenti;

2) La formazione di una Società delle Nazioni in grado di risolvere pacificamente i conflitti internazionali;

3) La libertà nelle comunicazioni e commerciale;

4) Il conferimento ai popoli del diritto di autodeterminazione;

5) Il rispetto per le minoranze.

Si vede benissimo che il presidente americano si ispirava, considerandola magistrale, alla lettera del Papa e ne faceva proprie tutte le proposte, addirittura accentuandole in tre punti: l’arbitrato proposto dal Papa era ora presentato come proposta di una stabile Società delle Nazioni; l’invito papale a tener conto delle «aspirazioni dei popoli» era ora riconosciuto, in due punti specifici, come «diritto di autodeterminazione» dei Popoli stessi e come diritto/dovere del «rispetto per le minoranze».

Principi e valori, questi ultimi, che purtroppo cent’anni fa erano del tutto ignorati, derisi e violati dalla classe politica italiana, formatasi nello spirito di un Risorgimento nazionale portato avanti in maniera aggressiva dei Popoli della penisola e in palese violazioni dei più elementari principi del diritto e persino della correttezza internazionali. Tutti gli studi di questi ultimi decenni, non uno escluso, documentano violenze, latrocini, abusi a non finire compiuti dai «fratelli d’Italia» del Nord per liberare – dicevano – i «fratelli d’Italia» del Sud e conclusisi, in nome di questa sedicente fratellanza e liberazione, con il furto dell’intero tesoro del Banco di Napoli (che faceva da banca di Stato del regno delle Due Sicilie), il quale aveva, da solo, un capitale in lire oro superiore a quello di tutti gli altri Stati della penisola messi assieme.

Io non voglio fare, qui, con voi, una parte da storico che non mi spetta, per quanto abbia acquisito sulla Grande Guerra, e continui ad ampliare, una vasta documentazione edita e inedita, che spero dopo di me venga valorizzata e non dispersa. Non voglio raccontarvi storie commoventi, se pur vere, di eroismi dimenticati, di sacrifici sconosciuti, di soldati, di civili, di donne e di uomini, di cappellani militari, di portatrici più o meno volontarie o costrette dei rifornimenti; mi sarei aspettato che in questo centenario si fosse fatto di più, che si fosse parlato di più dei nostri Eroi, per i quali vi chiedo di fare un minuto condiviso di silenzio, mentre tutti noi nel cuore diciamo il più sentito: «Grazie!».

Secondo me, abbiamo perso un’occasione, quest’anno, e chiedo a voi di farvi un dovere di non lasciar cadere senza frutto il ricordo, la gratitudine, la specificazione chiara dei valori che erano in gioco e per i quali si è combattuto e morto. Forse è vero che, nel dolore comune, da Nord a Sud, da Est ad Ovest, tra cittadini e alpigiani, letterati e analfabeti, ricchi e poveri, i soldati d’Italia hanno costruito l’Italia stessa; il loro abbraccio, il brivido del loro abbraccio, ha sciolto gli ultimi dubbi, dato origine ad una nuova Nazione.

Non so se esagero, se vedo più di quel che è stato; ma a me sembra che la carta costituzionale della Nazione una e indivisibile, come tale, sia stata scritta con il sangue innocente dei nostri fratelli martiri. E di quelli che, aimè, sarebbero venuti dopo quei primi; e non è finita.

Dove sono i nostri politici? Stanno con i martiri, con noi che li ricordiamo e li onoriamo, o con quelli che si vergognano di farlo? Che faccia da idioti più che da Italiani hanno i nostri politici da salotto! Con quelle loro facce da neutro spinto, che non sai di che genere siano, né politicamente né secondo qualche altra dimensione, se pur ce l’hanno. Come fa una Nazione nata dal sangue dei Martiri e degli Eroi ad essere rappresentata da smidollati e, peggio ancora, ipocriti simili? Sia quel che sia, siano anche brave persone, a far così però, sbagliano e noi vogliamo prendere le più nette distanze da loro.

Succede ancora e forse ci sono o si trovano motivi per farlo, non voglio negarlo, ma non dovrebbe essere che, come è successo a me a Fusine, centro capoluogo del comune di Val di Zoldo, domenica 4 novembre al monumento di Caduti non ci fosse né una ghirlanda, né un fiore e il sindaco fosse da altre parti e non avesse mandato nessuno a rappresentarlo. Allora, giratomi verso uno dei pochi Alpini presenti, ho detto: «No, non può essere; se è così, i fiori li offriremo noi, come parrocchia!», e da tutti i presentì sentii levarsi un mormorio di approvazione e un uomo disse, per tutti, con serietà e dignità: «È giusto, se lo meritano»; e un altro: «Non c’è più gratitudine» e una donna, parlando in dialetto: «Mi sembra che andiamo sempre peggio». Domenica 11 davanti al monumento ai Caduti c’era un bel vaso di grossi gerani rossi, ma non si vedeva né una bandiera né un segno di partecipazione del Comune e, allora, ho sentito un che come di vergogna, pur non avendone colpa, ed ho promesso a me stesso che di questo squallore ne avrei parlato, non appena possibile, e voi me ne avete offerta l’occasione, ed è stato come sollevarmi da un peso sull’anima, ma, ugualmente, non sono felice di quanto accaduto.

Non voglio fare la parte dello storico, dicevo, per quanto sarei ben in grado di farlo. Voglio essere, mi onoro di essere, sacerdote, Veneto e Italiano e questo mi basta. Un sacerdote che, per quel che riesce, vuol essere all’antica e, nei principi, sia un sacerdote di sempre e mi pare di essere qui, con voi, come in una trincea, perché se voi mi dite che questo è un incontro di studio o da salotto, me ne vado subito; resto se mi dite che, come me, sapete di essere in una trincea, in un fronte, ad una scuola di combattimento per la giustizia e la grandezza della Patria, dei Popoli d’Italia.

C’è chi dice che con la Grande Guerra si è completata l’unità d’Italia. Non è vero; poteva essere così, ma non è avvenuto.

Ci sono stati dei politici italiani (si va male a chiamarli italiani) che hanno tradito. Con il trattato di Parigi del 10 febbraio 1947, venne costituito il «Territorio libero di Trieste» e pochi giorni fa, il 10 novembre, c’è stato l’anniversario del Trattato di Osimo, sottoscritto nel 1975: l’abbiamo ricordato? Non mi si dirà che possiamo arrenderci a questa compravendita di territori, di città e di persone! Istria, Dalmazia, Fiume, terre amate, non vi abbiamo dimenticato! Il vento piega le erbette dei colli, baciati dal sole, e scivola sino al mare; in quella brezza di primavera, in quelle casette colorate e in quei palazzi antichi che ancora ci parlano di Roma e di Venezia, su quel mare d’infinita bellezza, dalla terra, dal cielo, dall’aria, dal mare, da ogni persona, sembra trapeli un’invocazione: «Non dimenticateci!» e una domanda: «È lontano in giorno in cui…?». E non dicono altro, perché hanno già detto a sufficienza e persino troppo, non avendo più neppure forza di piangere, mentre il loro cuore batte forte e il loro volto gronda di lacrime.

Questa sera, mi fermo qui, a queste parole, con questo turbamento dentro. «Requiem aeternam, dona eis, Domine e a noi dona, Signore, un più acuto senso delle nostre responsabilità, della Patria, dei legami e dei doveri che ci legano e ci affratellano».

Don Floriano Pellegrini

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