DON FLORIANO, La costituzione apostolica di San Pio V sulla Messa e i disastri del concilio Vaticano II  

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Con il documento solenne della «Quo primum tempore», avente il valore giuridico massimo, quello di costituzione, scritto naturalmente in latino e da noi riportato nel precedente articolo in traduzione italiana, venne promulgato, dopo il concilio di Trento, il nuovo rito della Messa.

Rito nuovo, però, solo nella struttura, in quanto (si veda il punto II della costituzione) elaborato, da una schiera di «uomini di eletta dottrina», i quali «dopo aver diligentemente collazionato tutti i codici raccomandabili per la loro castigatezza ed integrità – quelli vetusti della Nostra Biblioteca Vaticana e altri ricercati da ogni luogo – e avendo inoltre consultato gli scritti di antichi e provati autori, che ci hanno lasciato memorie sul sacro ordinamento dei medesimi riti», avevano – ed è questo che vogliamo evidenziare – «restituito il messale stesso nella sua antica forma secondo la norma e il rito dei santi Padri». Un messale nuovo, perciò, in quanto meglio fedele alla tradizione precedente e di sempre, sicché nel prenderlo in considerazione o nel modificarlo si deve, dovrebbe e avrebbe dovuto tener conto di questo altissimo grado di autorevolezza.

È evidente che, al contrario, il concilio Vaticano II non solo non gli è rimasto fedele ma, avvallato dall’autorità di Paolo VI, detto Paolo senza sesto (per quanto santo, un santo di cui – tra l’altro – non si sentiva per nulla il bisogno e che alla gente interessa meno di una buccia di patata) è giunto ad una sua sistematica manomissione.

Il nuovo messale, infatti, pur tenendo conto del precedente, introduce delle modifiche incontestabili; e, dunque? Si dice che esse sono state fatte per consentire ai fedeli una maggior partecipazione; ammettiamo che, in buona fede, l’intento fosse quello. Ma, per la nostra esperienza «sul campo», ossia per la nostra conoscenza diretta della vita d’una parrocchia prima del concilio florida e poi progressivamente scaduta, non vediamo che l’intento sia stato raggiunto; al contrario: si è andati proprio nel senso opposto, d’un continuo, se pur lento, abbandono della vita cristiana, che si voleva incrementare, ben consapevoli che lex orandi è lex credendi.

Giorni fa, incontratomi con quattro persone relativamente giovani, due operai e due artigiani, ebbi questo dialogo:

– Che bella Messa di Pentecoste ho fatto oggi a Zoppé di Cadore! Mi sono sorpreso anzitutto che il coro l’abbia iniziata con il «Veni Creator» in melodia patriarchia (quindi addirittura precedente al concilio di Trento); incoraggiato da ciò, io ho iniziato la Messa in latino, cantando l’«In nomine Patris», ecc. Poi abbiamo cantato, tutti e di gusto, in gregoriano, il Gloria, il prefazio, il Sanctus, il Pater Noster ed altri inni popolari.

– E allora? – dicono i miei interlocutori – Se era una Messa solenne è ovvio che si dovesse fare così; in che sta il motivo di tanto entusiasmo?

– Intendevo farvi notare che ho fatto varie parti in latino.

– E dov’è il problema o il merito?

– Ma non sapete che il latino era stato abolito, nella Messa, dopo il concilio ultimo; non volevano si usasse più; figurarsi cantarlo!

– Ma scherzi? E perché? E’ così bello!

Insomma, nel mentre io credevo di fare una bravura nel dire ch’avevo usato il latino, quei miei ascoltatori non provavano lo stupore, positivo, che m’aspettavo e uno di essi, una signorina, aggiunge come cosa ovvia:

– D’altra parte, voi sapete bene il latino; ve lo insegnano in seminario.

– Bella anche questa! Se non avessi fatto il liceo classico, non saprei quasi nulla di latino! Ma quella non è una scuola per futuri preti, la possono fare tutti. Dico di più: in seminario non ho imparato neppure il canto gregoriano; in seminario ai miei anni, almeno, era proibito e avevano ammucchiato, con mio scandalo, i «Liber usualais» (che sono quelli con i canti in gregoriano) in un armadio nell’atrio dei gabinetti del primo piano, quelli delle aule di teologia; e guai a volerli vedere, ti avrebbero considerato un retrogrado e, certamente, avresti avuto tre punti in meno nel giudizio dei superiori, forse persino un giudizio di non idoneità al sacerdozio, per cui era meglio far finta di non vedere e non sapere certe cose. Quel che conosco di gregoriano, l’ho imparato dal nostro vecchio parroco, don Ernesto, durante l’infanzia e l’adolescenza, ed è quello che ho appreso dai nostri, uomini e donne, che andavano a Messa e a Vespero e ci portavano con loro, e non solo mandavano, come fosse una cosa da bambini.

– Non l’avremmo mai creduto! Ma, allora, a voi preti, se non insegnano il latino, cosa insegnano in seminario?

– No, il latino non lo insegnano, almeno non lo facevano ai miei anni. Mi sembra che in questi ultimi stiano tornando sulla retta via, ma subito dopo il Concilio era stato tutto abbandonato, anzi buttato in ridicolo, e potrei raccontare molti fatti per comprovarlo. Del resto si studiano tante belle materie, che sono…

– E pensare che l’«Iste confessor» noi lo cantiamo ancora ogni anno, tutta la gente e anche i giovani, da San Pellegrino, nostro patrono! E la madre e il padre, e quel tale e quella tale (e giù vari nomi) sapevano a menadito il «Miserere» e il «De profundis» e la «Salve regina» e tutto il vespero in latino, pur non avendo fatto il liceo classico. E la Tagia (che era sagrestana) dirigeva il rosario naturalmente in latino, e la chiesa era piena di bambini, tanto che dovevano sedersi sui gradini delle balaustre.

– Non capisco neppur io che necessità ci fosse di dare un calcio a tutte queste cose, tanto belle e tanto amate dalla gente, per modernizzarsi, che poi in realtà è stato un mezzo protestantizzarsi. Che il Signore abbia pietà di chi ha combinato tutti questi disastri! In buona fede, torno a dire, ma non ne sono poi tanto sicuro… Guardo i fatti e i fatti fanno piangere, almeno chi ama Dio e la religione, pensando a com’era prima e a come è adesso…

E siamo andati avanti, scaldandoci nel tono di voce, ancora per un bel po’.

Insomma, noi di quassù, noi d’un paese dove le famiglie si definivano apostoliche e con ciò credevano d’essere più nobili delle nobili, noi siamo convinti che non fosse affatto necessario modificare il messale, abolire il latino e fare tutto il casino ch’è stato fatto; abbiamo il dubbio, che non andiamo a sbandierare ma pur tenace, che tutto questo sia stato fatto per far piacere e andare incontro alla società del dopoguerra e dei suoi primi decenni, moderna fin che si vuole (ma ciò è senza merito, per quanto suggestivo; è un fatto inevitabile e automatico lo scorrere del tempo) però atea (e questo è un limite, perché il credere o il non credere non è automatico, ma dipende dalle intelligenze e dalle volontà, e in questi ultimi decenni l’umanità ha perso molto l’essere religiosa). In ogni caso, modernità o non modernità (che è una questione fittizia), noi cristiani apostolici avevamo il sacrosanto diritto di continuare a pregare come sempre fatto e ci andava tanto bene e ci portava a tanti buoni frutti, personali e comunitari. Studiando la storia sacra, e pregando, nelle nostre case e nelle nostre parrocchie s’erano formati santi e cristiani forti e generosi, schiere di sacerdoti e di consacrati; alla scuola del concilio di Trento erano nate parrocchie robuste e feconde di bene. E, dunque, perché disprezzarci e tener conto solo, a nostro danno, degli amanti del moderno? Come se il moderno, anche se ateo, fosse stato in ogni caso migliore del tradizionale, anche se così robusto.

Non è dunque possibile e forse vero che, con la scusa della modernizzazione e usandola da paravento, alcuni, pochi magari ma influenti, vollero introdurre non tanto una riforma liturgica (che magari a loro più di tanto non interessava), ma un nuovo modo di essere cristiani (quello a immagine e somiglianza dei loro ideali di cristianesimo), una nuova spiritualità, una nuova teologia, che quella riforma liturgica avrebbe – compiendo una violenza spirituale e psicologica su persone come noi – tentato di avvallare e, comunque, difeso, diffuso e fatto credere ortodossa e normale?

Una teologia che, come abbiamo già avuto modo di vedere, sembra caratterizzata dal prurito costante di non scontentare nessuno, a cominciar dai protestanti?

Una teologia più attenta al fine, desiderato, di un’intesa per quanto possibile completa «con i fratelli separati» e con tutti gli «uomini di buona volontà», che all’ortodossia e, comunque, all’integrità dei contenuti, pur presentati in chiave più gradevole (come se fosse questo che interessa e dà loro fondamento) ? Il «vogliamoci bene», «guardiamo ciò che unisce e non ciò che divide», l’«ut unum sint» e tante belle frasi fatte e coniate sullo stesso cliché, sono diventate l’imperativo categorico della pastorale, portando a continue novità che sapevano tanto di cedimento, di compromesso, di dialogo mal inteso. E, del resto, come avrebbero potuto intenderlo diversamente quei fedeli che notavano tutto ciò, posti nella condizione di non poter reagire per non essere condannati, come già lo erano aprioristicamente, quali tradizionalisti, retrogradi, chiusi, conservatori, superati? Quei fedeli, come noi, che vedevano prevalere sull’unita vera e profonda, pur difficile ma irrinunciabile, un’unità ambigua, sentimentale, l’accordo senza accenno alle idee, l’amicizia rinunciataria e disarmata, quella religione insipida che i nostri antenati, apostolici, avrebbero senza difficoltà identificato nel «sale che non ha più sapore» di cui parla Gesù Cristo?

Oh, certo, molti difendono e difenderanno sempre, e a spada tratta, il concilio Vaticano II; a loro sembra necessario sia esistito; come potrebbero farne a meno? Per essi è troppo ovvio, troppo giusto, tutto ciò che il Concilio ha fatto, forse semplicemente perché lo trovano aprioristicamente e indiscutibilmente (discuterne è talmente fuori dal loro modo di intendere le cose, non dico «di ragionare», che neppure sanno intendere la parola «discutere») necessario, ovvio e giusto. E, del resto, come potrebbe una persona dar un giudizio diverso su ciò che vuole abbia, in ogni caso e quasi e magari per un diritto divino, ragione? Meglio: su ciò che quella persona da decenni ha trovato essere un buon appoggio alle ragioni alle quali, valide o meno che siano, non sa rinunciare?

Noi crediamo invece, ed è un credere che è convinzione sempre più confermata dai fatti (che distruggono fin troppo facilmente le loro ciance), che quanto successo dopo quell’evento (in sé stesso positivo e forse persino una grazia) sia per tanti versi e in tanti punti da rivedere, riesaminare, riequilibrare e sovente proprio da correggere, se pur con dolore e sofferenza e persino stupore che sia potuto accadere. E, pur tuttavia, senza lasciarsi frenare dalla paura nell’ammettere gli sbagli compiuti, e nel coraggio di ricominciare, tornando a quel tanto di bene che, troppo frettolosamente, era stato buttato al macero, senza con ciò togliere quel po’ di bene, indiscutibilmente presente e in quanto tale prezioso, che, coerentemente e quasi per sbaglio (per il resistere nella tradizione di un gruppo di fedeli) ancora c’è.

Dalla Circolare trasmessa con il Comunicato n. 1047 s’intuisce che la Santa Sede sta tentando di farlo, pur senza dar troppo nell’occhio e ben consapevole che persino tanti vescovi l’ostacolano, imbevuti come sono di modernismo e consapevoli che, se rinunciassero ai castelli teologici sui quali hanno fondato le loro giustificazioni apparenti, verrebbe messa a nudo la falsità dei loro comportamenti pseudo-pastorali. Che si desideri e si senta in dovere di farlo, lo s’evince anche da altri segni, alcuni dei quali importanti, com’è stata la costituzione, per volontà esplicita del successore di San Pietro, della Pontificia commissione «Ecclesia Dei».

Noi, perciò, pur dal nostro piccolo spazio d’esistenza, appoggiamo senza riserve questo sforzo, onesto e lungimirante, della Santa Sede, intento a rimarginare l’alluvione post-conciliare, che ha sfondato porte e finestre, culturalmente e fattivamente, della grande e veneranda Casa che è la Chiesa, fondata sul Cristo e contro la quale e il Quale le porte del Male non prevarranno; pur notando, anche noi come a Roma, che sovente l’onda lunga dello spirito post-conciliare continua a trovare terreno fertile, se mai si può usare quest’attributo, nell’atteggiamento di molti Pastori, più preoccupati d’essere moderni e graditi alla cultura dominante che Pastori secondo il cuore di Cristo e l’unica, nei secoli, sua e nostra madre Chiesa.

Tipo di sottoscrizione di Pio V (qui è la Bolla sugli assassini e i rivoltosi del 1566). Si osservi che il Papa si dice successore sia di San Pietro che di San Paolo.

Per un approfondimento del tema, può essere preso in considerazione il libro «Non si prega più come prima», di don Antony Cekada (Ed. Soodalitium, 1991, pp. 50) [1] Il libro parte dalla considerazione che nel 1969, quando venne mposto il nuovo rito della Messa, molti cattolici erano convinti che le orazioni fossero le stesse della liturgia antica (ed erano preghiere che, in alcuni casi, nel rito latino, risalivano al 150 dopo Cristo). Fu solo nel 1986, quando la Sacra Congregazione dei Riti comin­ciò «poco alla volta a pubblicare le nuove preghiere insieme all’ante­cedenti» (pag. 18), che la verità venne a galla.

Nel libro indicato, il primo studio che si occupa del confronto tra le preghiere antiche e quelle del post Concilio è il capitolo: «I problemi delle preghiere della Messa moderna». Il risultato che emerge da tale confronto è im­pressionante ma inconfutabile. Don Antony Cekada dimostra come quasi tutti i concetti tipica­mente cattolici siano stati eliminati dalle preghiere del novus ordo Missae e sostituiti da espressioni assai blande, che non offendono al­cuno. Sono sparite parole ed espressioni centrali, quali: sacrificio, riparazione, infer­no, «gravità del peccato», «insidie del male», «fardello del male», avversità, nemici, «i mali», tribolazioni, afflizioni, «infermità dell’anima», «durezza di cuore», «concupiscenza del cuore o degli occhi», indegnità, tentazione, «cattivi pensieri», «gravi offese», «perdita del cielo», «morte eterna», «punizione eter­na», «frutti proibiti», colpa, «eterno riposo», «vera fede», meri­ti, intercessione, «comunione dei santi», «fuoco dell’inferno», ecc. Vi sembra poco? Nessuno può contestare le scoperte dell’autore, che non solo le documenta con circa cinquecento citazioni dai testi del vecchio e nuovo messale, ma in molti casi, pubblica, una a lato dell’altra, le nuove e le vecchie preghiere e le offre all’esame del lettore.

Infine, il capitolo «I problemi delle preghiere della nuova Messa» rivela, con un’evidenza che sconcerta, come l’impianto e il contenuto delle preghiere del novus ordo Missae sia stato sistematicamente de-cattolicizzato.

NOTA

[1] http://www.effedieffeshop.com/product.php~idx~~~1248~~datasetpointer~~~7~~Non+si+prega+pi%F9+come+prima~.html oppure qui: http://www.sodalitium.biz/index.php?ind=reviews&op=entry_view&iden=17

Due santini di San Pio V; sono due incisione-acquatinta dell’Ottocento. 

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