MONEGO, Gli oscuri inizii della storia della valle di Zoldo

Val di Zoldo, panoramica sul Civetta dai pressi del passo Staulanza

Del dott. Pietro Monego

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Il monte Civetta, visione aerea da nord-est

Considerazioni di don Floriano Pellegrini

«Gli oscuri inizi della storia della valle di Zoldo» è il titolo di una più vasta riflessione storica del dott. Pietro Monego, sinora inedita, che oggi abbiamo il piacere e l’onore di pubblicare in questa parte.

Accompagnandola, l’autore scrive: «Ho scritto questo articolo pensando soprattutto che agli amici Zoldani potessero interessare le ipotesi di due eminenti studiosi sulle iscrizioni confinarie del Civetta. [Nel testo] mi riferisco, infatti, al prof. Gian Luca Gregori che, nel 2001, aveva interpretato tali iscrizioni come indicazioni di confine solo per la città di Bellunum (Fines / Iuliensium Bellunatarum), mentre il prof. Claudio Zaccaria aveva ritenuto che ambedue le città (Belluno e Zuglio) avessero il diritto di usare la fascia di confine del Cadore. Ma, a parte le due studiose prof.sse Vigolo e Barbierato, che hanno prontamente replicato, non c’è stato alcun ulteriore dibattito. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa Lei».

Della questione, in effetti, mi sono occupato in più d’una occasione, concentrandomi – pur secondo le mie modeste possibilità – su questo o quell’aspetto. Non ho opportunità di tempo per fare uno studio sistematico, per cui procederò, qui, con singole osservazioni e considerazioni.

[ 1 ] In contrasto con quanto dice il titolo dell’articolo, nel quale si parla di oscuri inizi, pur potendo ben dire questo, personalmente sono piuttosto dell’avviso, oggi come oggi, che tali inizii sono meno oscuri di quanto lo fossero ancora pochi decenni fa. Oggi, anche per gli studi e documenti citati e pubblicati dal dott. Monego, possiamo dire che la storia della valle di Zoldo può essere fatta iniziare con la cosiddetta conquista da parte del vescovo conte Giovanni, sul finire del primo millennio. Da allora sappiamo poco, in termini quantitativi, ma i pilastri di tale poco sono sufficientemente illuminanti.

[ 2 ] Per quanto sia indimostrabile l’affermazione dello storico Giorgio Piloni, del 1607, che «in origine questa valle si sarebbe chiamata Zaurnia, e che il primo nucleo abitativo stabile sarebbe stato un insediamento militare di un popolo di origine norica», secondo il suo assunto che «gran parte del territorio Bellunese era da Norici habitato, e dalli Geografi nelli Norici Mediterranei descritto, specialmente Zaurnia castello da loro edificato, qual si chiama ora Zaudo», pur tuttavia – lasciando perdere il riferimento ai Norici, a Virunum Aguntum e Zaurnia (Historia, p. 38) – appare accettabile – proprio per il collegamento con il vescovo conte Giovanni – il riferimento ad una presenza militare e ad un castrum, senza qui voler addentrarmi nella questione di cosa si debba intendere per castrum.

[ 3 ] Sono state definitivamente superate le ipotesi – cui il dott. Monego accenna – di stanziamenti stabili in Zoldo prima del vescovo Giovanni. La loro fantasiosità o almeno infondatezza appaiono evidenti. Sempre più: la stessa derivazione del toponimo Karpè da crép, crèpa, avanzata dal prof. Frau è stata smentita, dopo che è risultato derivare dal nome dei proprietari dell’area, i nobili bellunesi Carpedoni (poi Crepadoni). E le ipotesi di un incolato romano erano state definitivamente smentite già nel 1995 dal prof. G. B. Pellegrini, come ricorda il dott. Monego. Di pura fantasia, a mio parere e per quanto riguarda Zoldo, pure le ipotesi (del resto smentite da altri dati) dell’arch. Gellner, alle quali il Monego accenna.

[ 4 ] A fronte di queste smentite, fa piacere apprendere che «la moderna ricerca archeologica ha documentato, invece, la presenza di reperti del mesolitico in diverse località zoldane: nel gruppo Prampèr-Mezzodì, in alcune aree del Pelmo, del Passo di Rutorto e di Viza Vecia, nonché sul massiccio Civetta-Moiazza». Il dott. Monego fa una buona sintesi dei risultati ottenuti al riguardo.

[ 5 ] Gli unici reperti romani, certi (cfr. G. B. Pellegrini 1957), riguardanti la Val di Zoldo, sono le cosiddette «iscrizioni del monte Civetta». Ad esse, pertanto, e del resto lo richiedono per se stesse, va riservata la massima attenzione.

Vennero scoperte prima del 1928 (cfr. Le Dolomiti orientali di A. Berti, di quell’anno) da Domenico Rudatis e studiate da Ettore Ghislanzoni (soprintendente delle Antichità delle Venezie), che ne parlò in un articolo del 1938, accennando anche ad una ipotetica quarta iscrizione.

Il prof. Silvio Pellegrini nel 1956 ne deduceva (e sarà poi affiancato in pieno dal prof. G. B. Pellegrini): «Appartengono a una terminatio, probabilmente eseguita nel primo secolo dell’epoca imperiale, tra Iulienses e Bellunati, e, comunque si vogliano identificare le comunità confinanti, implicano un certo interesse economico della zona, sicché ai primordi della nostra èra l’alto bacino del Cordévole, anche se privo di insediamenti stabili e di vera colonizzazione, deve avere costituito un territorio di sfruttamento estivo pastorizio ed eventualmente pure forestale». Mi sembrano parole perfette, equilibrate. Si accenna ad uno «sfruttamento estivo pastorizio ed eventualmente pure forestale»; in molti commenti successivi, invece, osservo un’enfasi ingiustificata, per cui si parla di «pascua et silvae, che all’epoca avevano un alto valore economico», «un alto valore commerciale, che ne aveva imposto una suddivisione rigorosa». Chi, come noi, conosce benissimo l’area, intuisce subito che le «vaste foreste di conifere, e specialmente di abete rosso» di cui parla E. Migliario nella nota riportata dal Monego, sono puro frutto di fantasia; nell’area interessata non possono crescere!

Pur tuttavia, la nota dello stesso Migliario è utile per i passaggi iniziali, nei quali, parlando in generale, afferma: «Nell’Italia settentrionale prealpina il massimo sforzo di ridefinizione territoriale si verificò a partire dal 49 a.C. A seguito della municipalizzazione, infatti, anche il regime dei suoli pubblici o generalmente destinati all’uso collettivo che vigeva localmente nei vari distretti alpini entrati a far parte dell’Italia, avrà dovuto adeguarsi alle norme previste dal diritto romano; sul piano pratico, ciò comportò anche la fissazione ufficiale dei limiti dei pascua e delle silvae dislocati in aree attraversate dai confini dei municipia di recente istituzione. Si ritiene che in generale le nuove delimitazioni ripercorressero, ove possibile, le eventuali suddivisioni già esistenti fra le comunità preromane […]».

Scrive il Monego: «Sul significato da attribuire alle iscrizioni, fino alla fine del secolo scorso gli studiosi hanno concordato con quanto scriveva nel 1938 il Ghislanzoni e cioè che fossero iscrizioni confinarie tra due municipia romani». L’unica cosa che dovettero correggere fu la collocazione degli Iulienses sul lato nord-est e dei Bellunesi sull’altro, a differenza di quanto ritenuto – per errore – dal Ghislanzoni. Alle iscrizioni è stato dato, pertanto, il senso di confini amministrativi tra due municipi romani, in un’area che, per la sua conformazione geografica, avrebbe potuto creare delle ambiguità sui diritti d’uso dei pascoli (il delle selve lo vedo quasi irrilevante, poiché si tratta di un dossale e poco più d’una collina brulla).

L’espressione adottata dal prof. G. B. Pellegrini («si tratta di una divisione di ager compascus tra Bel(l)unum e Iulium Carnicum i cui centri amministrativi erano assai distanti», 1957) è stata però ambigua. D’altra parte nessuno studioso, per quanto geniale (e lui lo era) può indovinarle tutte.

Quel compascus induce a credere, e in questi decenni ha indotto i più a credere, che l’area fosse un condominio pascolivo tra i due municipi di Zuglio Carnico (centro assai distante) e Belluno (centro relativamente più vicino). Si tratta di un errore di prospettiva grave, nel quale anch’io, per più anni, sono caduto. Finché ho compreso che quello è un nome antico equivalente, nella sostanza, a quello che oggi si indica per demanio collettivo o proprietà collettiva; ed è utile, al riguardo la nota esplicativa (breve ma tecnica) che il dott. Monego riporta dall’Enciclopedia Treccani. Il cum del compascolo non è riferito ai due municipi, ma ai consorti o comproprietari in solidum dell’una e dell’altra parte, alle persone e non agli enti municipali.

La terminazione presupponeva due amministrazioni municipali e due proprietà collettive; le iscrizioni le precisarono e indicarono, in entrambi i sensi: di diritto pubblico e di diritto privatistico o, assai meglio, collettivo. Mi sembra di intuire, inoltre, che tale diritto collettivo, a differenza di quanto avverrà in queste aree dopo le invasioni barbariche, era riconosciuto (supposto, dato per scontato) in capo ai cives dell’uno e dell’altro municipio e, quindi, come un diritto civico e non, come sarebbe avvenuto dopo (con le Regole o, almeno, alcune di esse), quale diritto iure sangunis o gentilizio.

Tale è la distinzione e il presupposto culturale che i due egregi professori Gian Luca Gregori e Claudio Zaccaria non sembrano affatto aver intuito nelle loro relazioni del 29 e 30 settembre 1995, relazioni cui fa cenno l’articolo del dott. Monego, pubblicate nel 2001. Il primo giunge perciò ad affermare: «Se le epigrafi del Monte Civetta non volessero indicare che lì s’incontravano gli agri di Bellunum e di Iulium Camicum (o che quelli erano pascoli comuni ai due municipi) […] mi domando se sia troppo azzardato ipotizzare per l’età romana un’appartenenza del Cadore all’agro di Bellunum. In questo caso il confine con Iulium Carnicum potrebbe essere stato segnato dal Piave». Ed il Zaccaria giunge a sostenere: «È da chiedersi se i termini del Monte Civetta piuttosto che i confini tra i due agri giurisdizionali non indichino una ripartizione dell’area montana del Cadore, non assegnata direttamente ad alcun centro amministrativo e data in usufrutto parte a Bellunum e parte a Iulium Carnicum».

Le argomentazioni portate dai due studiosi a sostegno delle loro tesi, vista la non distinzione tra compascua amministrativa (pubblica) e compascua dominicale (collettiva) mi sembrano perciò nel loro complesso prive di un elemento interpretativo basilare e, sia pure valide e interessanti in osservazioni singole, nel loro complesso decisamente insostenibili.

Sarebbe mia intenzione, comunque, aggiungere dell’altro, non appena mi risulterà fattibile.

don Floriano Pellegrini

Il Civetta dal passo Staulanza, con l’omonimo rifugio (così per la legge, in realtà ottimo albergo)
Le pendici della zona confinata, si vede benissimo quanto siano brulle; non si può certo parlare di selve collettive tra Bellunesi e Carnici di Zuglio! E’ più che sufficiente, per non dire che è già tanto parlare di pascoli comuni, ovvero di pascoli per semplici pecore e capre, più che per bovini.

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