DE CARLO, Quel Romanus dell’antica Oderzo era un cane!

Del prof. Nerio De Carlo

Da: https://neriodecarlo.wordpress.com/s-t-o-r-i-a/

L’insegnamento e l’opinione pubblica possono derivare da una storiografia deviata, che confonde la cittadinanza con l’identità, com’è talvolta il caso di Oderzo.

Opitergium esisteva già all’età del bronzo. Non fu mai conquistata da Roma, né il suo nome fu certo attribuito dai Romani. Gli equilibri politico-territoriali dell’anno 90 d.C. conferirono anche agli Opitergini la cittadinanza romana, ma alleati non significa colonizzati o integrati. La romanità di Oderzo fu una vaga scoria lassativa di regime. Se così non fosse, si potrebbe parlare anche di dimensioni storiche bizantine fino al 751, longobarde fino al 774, e così via, ma l’eventualità non ricorre. Oppure, si potrebbe immaginare una romanità della Libia o di Bath nel Somerset, che furono colonie.

Quando si assiste a fiere affermazioni di romanità di Oderzo, viene in mente un giornale pisano, politicizzato, che tra il 1945 e il 1953 riportava i risultati calcistici delle squadre locali accanto ai successi del campionato sovietico. I maggiori anticorpi a certi malintesi derivano, tuttavia, dalla storia, usando i metodi comparativo e deduttivo.

La supposta romanità (non è un medicinale da assumere per via esclusiva!) deriva soprattutto dal rinvenimento di mosaici pavimentali, realizzati tra il primo e il terzo secolo dopo Cristo, che hanno indotto la dedica di una via nella toponomastica cittadina. Tra questi reperti spiccano, per importanza, le scene di caccia, che in un caso evidenziano le lettere R.O.M.A.N.U.S. «Più chiaro, dunque, di così!», dicono gli zelanti. E, invece, no! In Tunisia, infatti, è stato rinvenuto un mosaico commissionato da un ricco locale, di nome Magerio, solito a finanziare spettacoli con belve. Vi sono raffigurati quattro leopardi: accanto a ciascuno di essi si legge il nome, secondo la consuetudine del tempo. Le lettere R.O.M.A.N.U.S. (tra l’altro inserite con la tarda prassi venetica della punteggiatura estesa anche alle consonanti finali dei vocaboli) si riferiscono, pertanto, al nome del cane.

Ben altre considerazioni decaffeinano tuttavia la congettura.

La città romana era caratterizzata dalla presenza della classe oziosa dei notabili; c’erano disprezzo e diffidenza per le realtà connotate dai lavoratori, logicamente appartenenti alla schiavitù. Nel 215 un imperatore fece espellere i contadini che volevano risiedere in città e la motivazione fu che «essi non erano adatti alla vita cittadina».

Opitergium, al contrario, era commerciale, attiva, industriosa… Non era quindi una città romana, come spiegato nell’opera «La vita privata dall’Impero Romano all’anno mille» (Oscar Mondadori, 1993, p. 83). «Ogni artigianato è sordido e lo è anche il commercio in quanto fonte di lucro», sosteneva Cicerone. Come ascrivere tale condizione a Oderzo, commerciale sia etimologicamente (Oterg in venetico significa mercato) che storicamente?

Le arti popolari, le arti sordide, erano, secondo il filosofo Posidonio, quelle dei lavoratori manuali, che impiegavano tutto il loro tempo per guadagnarsi da vivere. «Sono mestieri che non hanno alcuna bellezza e non hanno nulla a che fare col BENE», precisava Seneca. Aristotele, poi, sosteneva che «i lavoratori non saprebbero governare la città. Del resto non ci pensavano nemmeno» e i Romani fecero proprio, diligentemente, questo principio divulgato dall’ellenismo. Insisteva inoltre il mistico Plotino: «La massa dei lavoratori manuali costituisce una folla spregevole, destinata a produrre gli oggetti necessari alla vita degli uomini virtuosi».

Ci vuole veramente una grande fantasia per applicare all’operosa Opitergium queste etichette australi!

Non può mancare un confronto su aspetti unificanti per definizione: la morte.

Le iscrizioni sepolcrali romane recitano: «Leggi, passante, che posto ho tenuto nel mondo… E ora che mi hai letto, buon viaggio». La risposta del passante compariva preventivamente sulla pietra: «Salute anche a te». Spesso gli epitaffi erano più espliciti: «Finché mi è stato concesso di vivere, sono vissuto da avaro e perciò vi consiglio di concedervi più piaceri di quanto non abbia fatto io. Questo è la vita: si arriva a questo passo, non oltre. Amare, bere, andare ai bagni, ecco la vera vita; dopo non c’è più nulla. Io non ho mai seguito il consiglio di qualche filosofo. Diffidate dei medici, sono stati loro a uccidermi». Non mancano, inoltre, menzioni di offerte onorifiche di zafferano (profumo pregiato) da parte di concittadini, per profumare il rogo al momento della cremazione della salma.

L’esame delle iscrizioni funebri opitergine nel Museo Archeologico rileva solo i nomi, l’eventuale parentela e la condizione sociale dei defunti. Si noti che questi erano sovente liberti, cioè non romani, come l’onomastica dimostra. Si ha motivo di ritenere che anche le 36 epigrafi scomparse nel 1857, durante il trasloco da villa Galvagna alla nuova raccolta, contenessero i medesimi estremi.

I Romani si facevano invece seppellire, nel secondo secolo dopo Cristo, in sarcofaghi decorati con bassorilievi che non hanno nulla di funerario (nel Museo del Louvre si ammira una Diana scoperta nuda dall’indiscreto cacciatore Atteone, che viene divorato dai cani della dea!). Ne consegue l’intento di esorcizzare la paura della morte mediante il prodigio della decorazione. Ogni parallelismo tra costumi funerari romani e opitergini è inconsistente.

Anche le mentalità religiose romana e venetica furono incompatibili. La prima non contemplava né l’aldilà, né la salvezza. La seconda dichiarava la brama delle lontananze celesti, cioè del paradiso. C’è qualcuno tanto amabile da ravvisare una identità di grammatica spirituale, oppure di identità culturale tra le realtà di Roma e di Oderzo?

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