DON FLORIANO, A fine Settecento a Venezia una S. Messa

«Adì 21 Giugno 1785 Venezia / Dal S.r Luigi Pellegrini noi sottoscritti habbiamo riceuto Lire Trenta d[‘]elemosina di Messe N.° 30 da farsi cellebrare per il q.m Andrea Pellegrini dalli RR. PP. [=Reverendi Padri] Cappuccini val L. 30 / […]ellari [=Vascellari?] e Bianchi»: questo ciò che si trova scritto su un piccolo foglio dell’archivio familiare. Documento semplice, ma che, nella sua semplicità, ci dà alcune informazioni sulla vita sociale spicciola degli Zoldani a Venezia negli ultimi anni del governo patrizio della Serenissima.

Risulta, ad esempio, che l’offerta per le S. Messe allora era detta elemosina, quindi una pura e semplice carità, espressione dialettale equivalente ad elemosina; non una contrattazione commerciale, un acquistare la Messa, ma – come dovrebbe essere sempre – una offerta spontanea coincidente con la celebrazione di una o più S. Messe.

Tale elemosina allora era stata fissata alla cifra generale di lire venete 1, come oggi è fissata in euro 10. 

Il Pellegrini è detto Signore ma credo sia poco più che per semplice cortesia; linguisticamente, poi, si osserva che la forma Pellegrini ormai prevale sull’iniziale de Pellegrin. E forse la spinta decisiva, perché questo succedesse, avvenne proprio a Venezia, per il bisogno concreto di semplificare il rapporto con terzi che i de Pellegrin-Pellegrini avevano o potevano avere.

La comunità religiosa di riferimento dei Pellegrini (e forse anche dei Rizzardini, cioè di tutti gli abitanti di Coi e Col) a Venezia era quella dei Cappuccini della chiesa votiva del Redentore, alla Giudecca. Sappiamo che gli abitanti di Brusadaz, invece, convergevano prevalentemente sulla chiesa di Santa Maria di Nazareth dei Carmelitani Scalzi al Cannaregio (attualmente a fianco della stazione ferroviaria); al Cannaregio (cioè a San Marcuola) a fine Settecento troviamo anche dei Colussi di Pianaz. Senza scendere troppo nell’analisi delle presenze in città, possiamo però ben dire che gli Zoldani a Venezia erano sparsi un po’ ovunque (mio bisnonno Giovanni Battista Valentino Fortunato nacque in campo San Giovanni Battista alla Bragora) e, naturalmente, per motivi pratici di alloggio e lavoro, quelli di un villaggio tendevano a concentrarsi in un quartiere e quelli d’un altro villaggio altrove.

Appare, comunque, l’importanza che le comunità dei frati di Venezia avevano quali punto di riferimento umano e appoggio concreto per i lavoratori, specialmente i più umili o di nuovo arrivo, provenienti dalla terraferma e dalle vallate alpine. Esse non assolvevano solo ad una funzione spirituale, liturgica e catechistica, ma mettevano in atto un servizio sociale di prim’ordine, frutto spontaneo ma pur organizzato della carità cristiana. Forse è per questo che, con la soppressione degli Ordini religiosi ed il saccheggio dei conventi successi dopo la caduta della Serenissima, molti lavoratori e operai che trovavano in tali Ordini un punto d’appoggio, si videro costretti all’emigrazione verso altre città, anche lontane e oltreoceano, alla ricerca di una malsicura fortuna. E tale emigrazione sarebbe andata via via crescendo, come l’onda d’urto d’una società violata nei suoi secolari ma fragili equilibri umani, per delle inaudite violenze e incredibili immoralità (magari in nome di diritti umani laici!) messe in atto da squadriglie di prepotenti assatanati.

Luigi Pellegrini voleva che si pregasse per suo padre defunto. A portare l’offerta ai Cappuccini, incaricò due suoi amici, che si firmarono con il cognome. Uno era un Bianchi, quindi una persona di Cibiana di Cadore, il primo paese (non dico Comune, ché ancora non esistevano i Comuni in area veneta, ma sarebbero stati anch’essi un’imposizione degli invasori francesi) che si incontra andando dalla parte bassa della valle di Zoldo verso il Cadore. L’altro firmatario è forse un Vascellari, forse di Venas o di Domegge, comunque sempre di Cadore. È bello apprendere di questi vincoli umani tra Zoldani e Cadorini; essi avevano imparato dalla religione ad essere solidali gli uni con gli altri e, andando a lavorare a Venezia, cercavano non solo di essere onesti ma di restare attaccati ai valori appresi dalle labbra dei loro genitori, parenti e paesani.   

don Floriano Pellegrini

Cappuccini oggi a Venezia
L’orto-giardino del Redentore, celato dietro l’omonimo tempio votivo eretto dal Palladio, è destinato allora come oggi sia alla preghiera come alla coltivazione di vegetali. Un ettaro di terra minuziosamente coltivato, dove trovano spazio ulivi e viti, alberi da frutta, ortaggi ed erbe aromatiche, quest’ultime un tempo utilizzate nella farmacia interna al convento. Il giardino del convento un tempo era, infatti, anche orto botanico, ove venivano coltivate le piante semplici, utili allo svolgersi dell’attività dell’infermeria speziaria. Il giardino è uno spazio che completa, allora come oggi, il corpo architettonico del convento e del tempio (da: https://www.meetingvenice.it/it/blog/i-giardini-segreti-della-giudecca ).
La farmacia dei Cappuccini. Ricordo, per inciso, che Giovanni Battista Pellegrini (padre del senatore Clemente Pellegrini) si appassionò proprio dell’arte farmaceutica e divenne farmacista a Dolo. Una coincidenza? I suoi frequentavano ancora i Cappuccini, ai primi del 1800? Probabilmente sì.
Alberto PERATONER, Storia dello Studio teologico “Laurentianum” di Venezia. Nella strategia della formazione teologica della provincia veneta dei Cappuccini; prefazione di Gianluigi Pasquale; Edizioni Roma, Istituto Storico dei Cappuccini, 2009, collana Bibliotheca Seraphico-Capuccina, formato in 8° grande (24 x 17 cm.), rilegato con copertina morbida illustrata con alette, pp. 272, con tavole fotografiche f.t.
Venezia, Burano, Rio Cappuccini

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