DON FLORIANO, Ancora sugli impianti di risalita, a Pàdola in Comelico, e ovunque

Nella foto: Candide (Comelico Superiore).

In merito alla lettera del 16 c.m., l’amico Luca m’ha scritto d’aver avuto l’impressione abbia sottolineato poco due fatti incontestabili:

«1) Che in montagna modelli economici, con i rispettivi potentati, estranei e predatori, sono stati proposti e imposti in numerose situazioni e occasioni, provocando scempi antropologici e ambientali spaventosi, che purtroppo continuano; »

«2) Che in montagna molti montanari e molta parte della classe dirigente locale si è prestata a spalancare porte, case e municipi ai potentati e ai modelli economici accennati, vendendosi per quattro denari e tradendo la propria gente. Gran parte della cosiddetta “economia della neve” rientra in questa forma orrenda di colonizzazione, culturale prima ancora che economica. Tra le vittime più oppresse sono state e continuano ad essere, soprattutto in Carnia, le Comunità titolari di beni collettivi. »

Sono verità importanti, che siamo felici di far nostre e divulgare.

Non è possibile, infatti, dare un appoggio ex toto genere suo alla costruzione di nuovi impianti di risalita e delle strutture loro annesse, né in generale, né per l’area specifica di Padola. Non era questo che volevo fare ma ribadire e rivendicare, con toni schietti e virili, il diritto di autodeterminazione umana, culturale ed economica delle comunità locali.

Questo stesso principio orientativo (l’autodeterminazione) in alcuni casi potrebbe risultate di freno a tali impianti; importante è che la comunità tutta, nelle sue forme diversificate di essere e di operare, e sia pure con gradualità, ne ricavi vantaggio e non uno svantaggio. Né sarebbe accettabile sentir dire da qualcuno che, nel far ciò, la comunità interessata mostrerebbe preclusione verso i foresti, poiché anche dei locali potrebbero assumere dei comportamenti e cercar di imporre delle scelte che, magari ammantate di apparente vantaggio, si risolvono in tempi brevi, intermedi o lunghi, in un danno per la generalità dei cittadini. Sono pure consapevole, per terzo, che a volte una comunità deve essere oltre che ascoltata anche stimolata, con iniziative nuove, a verificarsi su percorsi di crescita nuovi. In ogni caso il referente ultimo non può essere altro che la comunità.

A volte le comunità sono in un atteggiamento rassegnato, non propositivo, che si risolve a loro danno, e subiscono passivamente la loro stessa inerzia. Potrei fare vari esempi e mi limito alla val di Zoldo. Da pochi mesi la Società degli impianti di risalita è venuta ad avere un capitale di maggioranza formato da soci pugliesi e di altre regioni dell’Italia meridionale. Dobbiamo rallegrarci? Per alcuni aspetti sì, ma non possiamo non avvertire che la comunità locale è stata latitante e così ha perso il controllo di un settore importante del proprio territorio. Poteva agire diversamente e non l’ha fatto. Qualcuno dirà che, in una società del libero mercato, è inevitabile succedano passaggi di proprietà così radicali, ma è vero fino ad un certo punto e trovo che, in ogni caso, quando si realizza, ciò sia il segno che s’è entrati in un meccanismo aberrante o, almeno, non normale, nel relazionarsi tra soggetti pubblici, privati e collettivi.

Qualcuno mormora; va dicendo che «non sta tanto bene» che un prete, quale son io, si occupi di tali questioni, ma costui ha un’idea misera, tendenziosa e inaccettabile del sacerdozio. Come potrebbe un sacerdote occuparsi delle dimensioni spirituali senza tener conto di tutta la persona, soggetto unico e indivisibile di quelle dimensioni? E come potrebbe ignorare i modelli culturali, che condizionano pesantemente lo stesso dinamismo spirituale? Come potrei io, in concreto, tacere di fronte all’avanzare di una cultura esasperatamente individualista e borghese cioè menefreghista degli altri? Non m’importa nulla, anzi mi diverto, se «lor signori» si irritano per delle mie espressioni che essi (vogliono sempre sapere una carta più del libro e godere del diritto di ultima parola) trovano poco fini e poco spirituali. Considero il loro modo di ragionare una sub-cultura, una cultura da selvaggi arricchiti, e non cesserò mai di alzare alta la voce per frenare, con un alt «chiaro e distinto», la metastasi sociale del loro sub-pensiero. Ah, quanto sono ridicole e ridicolmente aggrappate alle loro stesse maschere certe persone, borghesi, inanellate e incipriate, che parlano di montagna come di oasi indiane, di parchi da conservare ad ogni costo… per i loro quindici giorni di capricci in montagna!

don Floriano Pellegrini

Nella foto: Dosoledo (Comelico Superiore).

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