DON FLORIANO, Caro John Christopher Stevens, ti ricordo!

Comunicato del Baliato dai Coi

Il groppo alla gola è ancora tutto qui e lo stupore, di quanto accaduto, per me non è cessato. Come ieri John Christopher Stevens avrebbe compiuto 61 anni, ma non c’è più, è stato assassinato l’11 settembre 2012, a Bengasi, in Libia. Era ambasciatore degli Stati Uniti d’America. Un uomo brillante, competente, amabile. Al rientro in patria della sua salma, il presidente Obama lo definì «uomo che incarnava la quintessenza del diplomatico» e, poiché questo è vero, lo ricordo con ancor più sofferenza.

Come l’avessi conosciuto, sia pur abbastanza fugacemente, non ha valore rivelarlo. Una trentina d’anni fa, anche tramite i buoni uffici (e non solo) di madame Michelle Campagnolo Bouvier, per alcuni anni ebbi modo di frequentare l’ambiente consolare in Venezia, con i suoi “allargamenti”, ogni tanto, a quello diplomatico. Avevo avuto un ottimo suggerimento, scrittomi nientemeno che dal card. Sodano, allora segretario di Stato vaticano; ed era questo: partendo dalla concezione della diplomazia quale arte del mediare, abilità indispensabile è quella di dare e creare fiducia. A tal fine, Sodano mi diceva di rispettare perciò sempre, per quanto possibile, la sensibilità e le consuetudini altrui. Questo presupponeva ogni volta il grave dovere di conoscerle, con precisione e in anticipo. Inutile dire che Chris, come veniva chiamato per la simpatia che suscitava attorno a sé, era in questo maestro nato e, con il suo fare sorridente, era capace di dribblare gli ostacoli, prevenendoli e, in tal modo, costruendo ponti di fiducia. La sua abilità e simpatia non gli giovarono, però, purtroppo, a mettere in salvo la propria vita.

Ciao, Chris, addio, ti ricordo: sii ricordato, amato, onorato!

don Floriano Pellegrini

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DON FLORIANO, Anche su Stevens c’è chi ha volute spargere fango

Riporto un articolo di Miguel Martinez, del 13 gennaio 2012, quindi di due giorni dopo il suo assassinio, tratto da: https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=44056 , all’originale intitolato: «John Christopher Stevens e l’allegria di Hillary Clinton». Articolo che ho sempre considerato un esempio, pur dicendo (e proprio perché dice anche) cose buone e utili,  di cattivo giornalismo, nel senso di informazione a sguardo unilaterale. Ho visto, tra l’altro, che ai link indicati all’originale, non si apre (almeno adesso, nel 2012 non so) nessuna pagina, e dunque…

Apprendiamo dalla CBS che l’FBI, che ai tempi miei si occupava solo di fatti interni agli Stati Uniti, ha mandato una squadra per indagare sulla morte dell’ambasciatore statunitense a Benghazi: degli altri morti, pare tredici in tutto, non si parla.

Inoltre, gli Stati Uniti lanceranno una serie di droni sopra la Libia, e stanno mandando due incrociatori dotati di missili Tomahawk, come si fa insomma con i paesi amici e alleati.

Gli ambasciatori statunitensi si dividono in due categorie.

Nella prima categoria, troviamo ricchi imprenditori, che si comprano semplicemente il titolo, come Mel Sembler, un tempo proconsole in Italia, di cui abbiamo parlato qui e qui.

Nella seconda, troviamo i tecnici del dominio. Tra questi, John Christopher Stevens, il signore morto l’altro ieri a Benghazi.

Nel curriculum di John Christopher Stevens, ci sono due momenti simbolicamente fondamentali.

La carriera da giovane nel Peace Corps; un titolo ottenuto dal National War College. Peace and War.

Il Peace Corps è un immenso dispositivo, finanziato direttamente dal governo e messo in piedi dal presidente Kennedy in piena guerra fredda, per ottenere insieme diversi scopi.

Intanto, imbrigliare al servizio dell’Impero le sterminate risorse di buona volontà dei giovani liberal statunitensi, ai tempi delle lotte per i diritti civili e in anticipo sul Sessantotto. Il Peace Corps, infatti, sarebbe stato una bestia nera per la destra, che riusciva a vedervi solo un covo di potenziali sovversivi.

Il secondo scopo del Peace Corps era di diffondere nel mondo l’immagine degli Stati Uniti, in particolare attraverso quel bene simbolico, sorta di moneta globale, che ogni americano almeno in potenza possiede: la capacità di insegnare la lingua inglese.

Il terzo scopo, realizzare forme di progresso favorevoli alle imprese statunitensi, con l’invenzione di un ceto medio globale: il Peace Corps nasce in contemporanea con la fallimentare Alleanza per il Progresso, il dispositivo che avrebbe dovuto rivoluzionare la società dell’America Latina, inserendola nell’economia moderna e creando un vasto mercato per la produzione statunitense – gli aiuti americani venivano vincolati all’apertura agli investimenti e alla promessa di non produrre prodotti concorrenziali con quegli statunitensi.

Il Peace Corps doveva poi far conoscere poi il mondo a una generazione di potenziali operatori militari, spie e diplomatici.

E infatti, John Christopher Stevens ha iniziato la propria carriera come insegnante d’inglese per conto del Peace Corps, in Marocco.

Il National War College è, invece, un’istituzione stabilita subito dopo la Seconda guerra mondiale, per formare – come ci informa il suo sito – «grandi strateghi».

«È l’unica scuola nel sistema di formazione professionale militare a concentrarsi soprattutto sulla strategia di sicurezza nazionale, sull’impiego integrato di tutti gli strumenti del potere nazionale – politici, economici, informatici e militari – al servizio dell’interesse nazionale».

La formazione di strateghi imperiali richiede un sistema lontano da quello dei vecchi militarismi europei: «L’aperta condivisione delle idee e degli approcci, l’analisi critica, il pensiero critico e la capacità di sintetizzare, e poi sostenere e difendere, nuovi concetti, sono al cuore di ogni discussione nei seminari».

Persone come John Christopher Stevens o Muammar Gheddafi hanno scelto mestieri ad alto rischio; e come non piangiamo per chi precipita facendo bungy jumping, non piangiamo né per l’uno né per l’altro [frase di una insolenza inaccettabile. N.d.R.].

Ma non facciamo nemmeno come Hillary Clinton, quando ha commentato a caldo il fatto che Gheddafi era stato spogliato, torturato e picchiato a morte. Per chi non si ricordasse la reazione della segretaria di Stato degli Stati Uniti («we came, we saw, he died!»).

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