DON FLORIANO, Discorso per la benedizione della stele in onore di Erwin Maier. Coi, 12 luglio 2005

Coi, 31.05.2015. La stele di Erwin Maier all’umbra della tuia carsica.

Di don Floriano Pellegrini

Testo in PDF: PELLEGRINI, 12 luglio 2005. Discorso per benedizione stele Erwin Maier.docx

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Con grande piacere la mia famiglia ed io vi porgiamo il più cordiale saluto e il benvenuto in questo giardinetto, chiamato al Ort di Fiór. Già l’avevamo fatto, e più volte, in questi ultimi mesi e, forse, persino in questi ultimi anni, al solo pensiero di “fare qualcosa” che avesse pubblicamente manifestato il perdurare, oltre la morte, del vincolo di affetto e della consapevole stima per Erwin Maier.

Salutiamo i genitori di Erwin, Lina e Marino, gli zii, gli amici di Paluzza, gli sportivi e gli Alpini di quella ospitale comunità. Salutiamo i colleghi di Erwin nell’Arma dei Carabinieri, soprattutto quelli in servizio a Cortina d’Ampezzo, e il comandante della loro stazione, mar. Gabassi, che li guida. Salutiamo le autorità civili, il vice sindaco di Paluzza, Giancarlo Magnani, il vice sindaco di Zoldo Alto, Stefano Cappeller, l’assessore Marzia Balestra. Salutiamo il nob. Italo Quadrio, cancelliere dell’Associazione nobiliare triveneta.

Salutiamo voi tutti qui presenti, amici, che, con la vostra partecipazione ed il vostro fraterno e qualificato assenso, rendete più completo e gioioso il momento celebrativo, semplice e pur solenne, che stiamo vivendo.

Senza dimenticare il sig. Prefetto, che, impossibilitato a partecipare in quanto oggi ricorre pure la festa del patrono dei Forestali, san Gualberto, non ha mancato di farci noto il suo apprezzamento per questa iniziativa.

E senza dimenticare, infine, le persone che hanno inviato un messaggio di saluto. Desidero leggervi alcuni passi di una lettera giunta da Seveso: «E’ ormai imminente la benedizione della stele a ricordo e onore di quel grande Erwin Maier, a cinque anni dalla tragica scomparsa terrena. Partecipiamo ai preparativi, già pronti; sentiamo quell’ansia positiva e trepidante nel cuore, seguiamo passo passo le mosse di chi gestisce con discrezione la festa, siamo come ombre presenti con lo slancio del sentimento. / Consapevoli sostenitori di Erwin […], ne ammiriamo le grandi dori di alpinista-carabiniere e le speciali qualità umane. I valori dell’altruismo, dell’amicizia, in equilibrio con l’entusiasmo e la tenacia nei suoi impegni… il buonumore sono davvero un insegnamento e un monito, specie per i giovani, e un grande lascito morale. Come tale, non dev’essere perduto, ma fatto fruttificare. / […] Sicuramente Erwin è contento e sorride per questa stele, perché è solida e semplice, come lui, quindi un simbolo, posto tra i fiori alpini, in un órt di casa, tra le montagne che lui tanto amava, non lontano dalla sua Paluzza. / E’ un Erwin presente, come di fatto è ancora. Ecco, forse lui non vorrebbe troppa pubblicità, ma essa è così fine e discreta, come un’eco che rimbalza di villaggio in villaggio, di cuore in cuore, per dire: “Vieni a sentire chi era Erwin e tornerai a casa più ricco”. Non vorrebbe troppo chiasso, ma non ci sarà chiasso quel giorno, solo un’accorata presenza e una serena comunione di ideali tra amici».[1]

Queste righe descrivono esattamente i sentimenti e i motivi che ci vedono riuniti.

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Al sito internet www.cjargne.it per lungo tempo è stata dedicata una pagina ad Erwin. In essa ho descritto confidenziale come, già dopo la morte dell’amico, avessi progettato porre, vicino casa, qualcosa in suo onore e in suo ricordo. E come ne avessi fatto cenno a mio padre, il quale ora, e da dieci mesi, «vigila e approva con la sua presenza nascosta questo fiore speciale nel suo órt di fiór e, sorridendo compiaciuto, va discorrendo con Erwin, come con tutti i nostri cari». [2]

La stele, [3] nella quale si è concretizzato il desiderio, è una lastra di marmo d’Istria, lucido sulla parte anteriore e discato sugli altri tre lati. E’ alta 130 centimetri, larga 20, dello spessore di 15 centimetri alla base e 7,5 in alto. Reca, incise in carattere Arial, le semplici parole carniche «Mandi Frut», che possono essere rese in italiano quali «Arrivederci Ragazzo».

La scelta del marmo d’Istria era moralmente d’obbligo, per me. Anzitutto per la sua bellezza, data da quel particolare biancore venato d’un tenue giallino, che sembra imprigionare la luce del sole e il calore degli ondulanti pianori e delle scogliere della penisoletta della Venezia Giulia, degradanti verso il pacifico mare Adriatico. Poi a motivo di una lunga sintonia e, potrei quasi dire, di un richiamo affettivo e familiare verso quel lembo del nostro primo oriente. Quanto mi fece conoscere dell’Istria il prof. Francesco Semi! Quanto ci aiuta a volgere lo sguardo a quella terra il dott. Mario Dassovich! Noi non dimentichiamo le dolorose vicende legate all’illustre figura del vescovo mons. Antonio Santin!

E, poi, strettamente unito alla penisola istriana, sempre ci apparve e si affaccia alla nostra mente il nome della città di Fiume, ove un fratello del nonno paterno, Michele, aveva trasferito la sua famiglia, vissuto i suoi anni felici e, infine, subìto la tragedia della seconda guerra mondiale e della morte dei figli. Come avremmo potuto noi, i rimasti, lasciar scivolare su quelle pagine di sofferenza, di una città e di una comunità, il velo dell’oblio? Non sarà mai, da parte nostra; «indeficienter», «inesauribilmente», come dice nel suo stemma, scorre verso di essa, Fiume, la memoria e la speranza di un’alba nuova. E seguiamo dalle pagine del suo mensile, la voce dei fratelli profughi, rappresentati dal «Libero Comune in esilio».

Infine, ma non da ultimo, la scelta del marmo d’Istria accende in noi quasi una nostalgia dell’illustre Dalmazia, le cui vicende seguiamo con affetto, scorrendo le pagine della rivista dell’Associazione nazionale Dalmata, rivista diretta dal nob. Nicolò Luxardo De Franchi, al quale rivolgiamo, se pure da lontano, un saluto rispettoso e cordiale. Con lui ripetiamo le parole iniziali dell’inno dalmata: «Popol d’Italia, avanti avanti / bagna nel mar le tue bandiere, gente di mille primavere / l’ora dei forti tornerà!». [4]

Istria, Dalmazia, Fiume, terre amate! Il vento dei monti sembra recare a noi l’eco del vostro antico gemito di libertà. Al vostro gemito corrisponde il nostro impegno.

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La celebrazione odierna si compie nel giorno detto, qui a Coi, Festa de le curadure, ossia «Festa della [definitiva] pulizia» dei campi, che, fino alla prima guerra mondiale, occupavano interamente i declivi e s’aprivano ondeggianti d’orzo, frumento, fave e patate, attorno al paese.

Questa festa, che abbiamo voluto ricordare sui manifesti delle iniziative turistiche della valle, da alcune generazioni non si celebrava più, conseguenza dell’abbandono generalizzato, per quanto non totale, dell’agricoltura. «Non totale», dicevo, e, infatti, quest’anno la nostra latteria sociale celebra i 120 anni di ininterrotta attività, una delle pochissime in provincia di Belluno ad aver raggiunto questo traguardo.

La Festa de le curadure coincideva, comunque, il 12 luglio, con il giorno nel quale, religiosamente, si festeggiano i santi Ermagora e Fortunato. Ermagora, vescovo, fu il primo patriarca di Aquileia; Fortunato era il suo diacono. Subirono entrambi il martirio. Sono i patroni della diocesi di Udine e, quindi, anche della Carnia, e, dopo San Pellegrino, sono pure patroni spirituali del villaggio di Coi.

Era giusto, pertanto, evidenziare, come facciamo oggi, il legame che, tramite i santi Ermagora e Fortunato, esiste fin dai tempi antichi tra Coi e la Carnia.

Volgete lo sguardo attorno, alle imponenti cime che segnano l’orizzonte del cielo, e comprenderete come ciò possa essere accaduto.

Di fronte a noi, solitario nella sua maestosa bellezza, vi è il Pelmo. Ai suoi piedi, tra ghiaioni e nevai quasi perenni, sgorgano centinaia di sorgenti, le cui acque, gelide e purissime, si convogliano verso il fondovalle, formando ora un’incantevole pozza e quasi un minuscolo lago tra i mughi e i rododendri, ora un ruscello che scivola nascosto tra i muschi. Alcuni di questi percorsi d’acqua già dalle alte quote, oppure al di sotto dei supremi altopiani alla base delle pareti rocciose, assumono un aspetto di torrente. Abbondanti d’acque rumorose, scavano solchi profondi nel terreno, mettono in evidenza e quotidianamente lucidano i massi di cui il terreno si compone. Questi torrenti sembrano tracciare nel fitto delle boscaglie, e indicare al percorso delle mulattiere, un prima e un dopo. Sembrano, a volte, quando altre circostanze li facciano percepire come tali, dei confini naturali. E così, in effetti, furono intesi, ovunque, sulle nostre montagne alpine.

Fin da bambino, accompagnando qualche adulto alla custodia della mandria del villaggio, nei quotidiani spostamenti da un pascolo all’altro sulle pendici più fertili del Pelmo, mi venne spiegato che, secondo l’antichissima e quasi sacra tradizione, saremmo potuti arrivare al massimo, verso nord-ovest, al torrente chiamato Ru Biénc, appena oltre il costone delle Lendine. E’ vero che, qualche volta, andavamo oltre, sino al Pian di Fóp e, persino, al Pian di Bùei; ed era legittimo, poiché ormai anche quelli erano divenuti pascoli del villaggio. Ma sapevamo bene che in antico non era stato così e attraversavamo il Ru Biénc sempre con un po’ di timore e con il senso confuso di violare un tabù. Sì, perché esso segnava, fin dal tempo dei Romani, il confine tra il municipio di Zuglio Carnico, del quale l’intero Cadore faceva parte, e il municipio di Belluno, al quale, col nostro estremo lembo di terra, appartenevamo noi della valle di Zoldo, noi di Coi.

Ancor oggi, dopo tanti anni e tante vicende, quando giungo al torrente di Ru Biénc provo uno strano, irrazionale timore; ho la sensazione di attraversare un limite che non dovrei valicare e l’anima viene invasa da un senso di mistero.

Fin da adolescente, poi, volgendo lo sguardo all’altra montagna, al Coldai, sapevo che lì, ove il canalone che la separa dal restante gruppo della Civetta lascia il posto al verde della boscaglia; che lì, ove l’occhio individua un minuscolo pianoro, sulla parete di roccia che lo sovrasta in modo quasi perpendicolare, e così pure in altri due punti di quella zona, lì sono incise le iscrizioni romane di confine tra Zuglio Carnico e il Bellunese. Il confine segnato dal Ru Biénc trovava da sempre in quelle iscrizioni la sua conferma ufficiale, incisa nella roccia da ignoti esecutori di un ordine dei funzionari dell’impero romano. Di qua il Bellunese, di là il Cadore e, storicamente, Zuglio Carnico.

Eppure, io mi sono sempre chiesto se un confine storico, che nessuno può cancellare né vuole farlo, debba rappresentare, come sembrerebbe, un punto di divisione e non essere inteso e divenire, piuttosto, un punto di unione, come ho sempre ritenuto. Non il luogo in cui ci si allontana, ma ci si incontra; non il luogo in cui si prendono strade diverse, ma ove entrambe le strade convergono; non il luogo in cui si diventa estranei gli uni agli altri, ma quello in cui ci si dà la mano e si diventa amici. Il luogo in cui, provenendo da comunità e da storie separate, si apprende, un po’ alla volta, a conoscersi meglio, a rispettarsi, a non divenire mai, col pretesto di quel confine, gli uni nemici degli altri, gli uni contro gli altri, ma gli uni fratelli degli altri.

Nella mia amicizia verso Erwin coltivavo questo desiderio di fraternità e mi sembrava che tutte le paure infantili del Ru Biénc si trasformassero, finalmente, in un abbraccio festoso e divertito. Quel comando che avevo ricevuto da bambino: «Non andare oltre!», finalmente poteva essere da me superato, nell’altro, che il cuore mi dettava ed era l’esatto opposto: «Vai oltre il confine!». Certo, non per diminuire l’altro con la propria presenza, violarlo nella sua identità, condizionarlo e ridurlo a sé. Ma, al contrario, per avere la gioia di conoscerlo; per avere la gioia, conoscendolo, di imparare a scoprirlo nella sua identità.

Finché, inaspettatamente, mi venne dato di intuire che anche lui, Erwin, condivideva lo stesso sentimento, che questo sentimento in noi era uno slancio luminoso e trasparente, che si rafforzava, via via, in nuovo desiderio di conoscenza e in nuovo slancio. In noi, nelle nostre anime, nel nostro più profondo e totale slancio di vita, pur così diversi per tanti motivi, vi era un’identica disponibilità vicendevole; non divisione, ma sintonia di spiriti.

Questa stele conserverà in sé, anche quando il mio corpo avrà cessato i suoi giorni terreni, il desiderio d’incontro che ci fu tra Erwin e me, e il grido gioioso e potente delle nostre anime, amiche, che per quanto possibile lo attuarono.

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A riguardo dell’amicizia, c’è purtroppo, una concezione superficiale e inesatta.

Nella maggior parte dei casi è confusa con il sentimento che l’accompagna, fatto di benevolenza vicendevole; l’amico – si dice – è colui del quale ci si può fidare e col quale ci si può confidare. Tutto ciò è vero; eppure l’amicizia, nella sua essenza, è qualcosa di più e di diverso dal sentimento.

È fondata sul riconoscimento di una dote dell’altro e, assieme, sul riconoscimento, da parte dell’altro, di una dote in noi. Se non c’è questo riconoscersi vicendevole, non si può parlare di amicizia. Le qualità che l’amico apprezza nell’amico possono essere di valore diverso, di grado inferiore o superiore. Può trattarsi di una qualità del corpo, com’è la bellezza o la prestanza fisiche; oppure essere una qualità del carattere, quali la tenacia o la mitezza; oppure una qualità intellettuale, come la capacità di apprendere una lingua straniera; può trattarsi, infine, di una dote spirituale, qual è l’altruismo o la religiosità. Più un’amicizia è fondata sui valori superiori, più è gioiosa e duratura; più è fondata su quelli inferiori – per quanto siano e restino valori – è soggetta al loro venir meno.

In ogni caso, l’amicizia non può fondarsi che su un oggetto positivo e volgere verso una meta positiva, altrimenti sarebbe (confusa con la) complicità. Anche i ladri tra loro possono chiamarsi ed essere amici, ma non lo sono, in vero, perché non si aiutano ad essere migliori, ma semplicemente a raggiungere il possesso disordinato di alcuni beni materiali. La loro solidarietà è contro terzi, cui reca un danno, mentre la vera amicizia non è contro nessuno e non ha bisogno, per esistere, di danneggiare altre persone. La vera amicizia è, come nel mondo dello sport e delle professioni oneste, una solidarietà ed uno stimolo vicendevoli, per superare, con la forza dell’unione e dell’incoraggiamento reciproci, le difficoltà individuali al conseguimento dei risultati umani, atletici o professionali, desiderati. Nell’amicizia c’è, come è comunemente rilevato, un atteggiamento vicendevole di fiducia, quasi l’uno dicesse all’altro: «Tu puoi farcela», «Io ti aiuterò a farcela».

Nella misura in cui alla fiducia si unisce la constatazione gioiosa che l’amico fa i progressi desiderati e raggiunge i traguardi sperati, diventa stima. Ed è la stima la colonna portante dell’amicizia, ed ogni vera amicizia può reggersi solo sulla stima e finché la stima non ceda il posto alla delusione.

Tutto questo avviene a livello di singole persone, come pure tra comunità e popoli. Quante barriere psicologiche esistono ancora al mondo, nonostante e ben al di là delle organizzazioni internazionali! Quante prove di mancanza di fiducia tra comunità, magari confinanti; quanto disprezzo di chi sta oltre il nostro terreno culturale, etnico, religioso, economico, scambiato spesso per un nemico o almeno come un pericolo, quando è solo un essere umano che sta due passi oltre la linea di confine che abbiamo psicologicamente innalzato!

Quanta poca conoscenza c’è anche tra comunità appartenenti a uno stesso territorio montano! Quanto poco noi di Zoldo conosciamo alcune valli del Cadore e la Carnia, quanto poco anch’esse sanno di noi!

Ci sarà un giorno in cui tutto questo sarà superato e si sarà felici non di allontanarsi, ma di avvicinarsi; di aiutarsi, non di contrastarsi; di conoscersi, non di disprezzarsi; di desiderarsi nella reciproca identità e diversità, non nell’annullamento di sé stessi in un anonimo conformismo e cosmopolitismo. Sono certo che questo giorno arriverà. Ho riflettuto a lungo prima di giungere a questa certezza e mi sono convinto che, nel nostro futuro, non potrà essere che così.

I rapporti interpersonali e internazionali prima o poi dovranno fondarsi sull’amicizia, cioè sulla conoscenza, la fiducia e la stima, gli uni degli altri, gli uni per gli altri. Non può essere solo l’organizzazione turistica o commerciale a spingere le persone a spostarsi, e a spostare i propri capitali, da un continente all’altro del pianeta. Non è accettabile che l’anima dei rapporti tra le nazioni e le comunità sia il commercio dei beni materiali, ovvero la ricerca prioritaria del benessere economico e dell’utile finanziario. Né è accettabile che ci si sposti quasi solo per motivi di riposo dal lavoro, per un turismo che, in quanto ferie lavorative, entra ancora nello schema mentale che assegna all’economia la funzione primaria di mettere in rapporto i popoli, finché c’è l’utile, e poi di contrapporli.

E’ necessario imparare l’arte dell’amicizia, che è bello trovarsi, conoscersi, aiutarsi con gratuità, senza porre tutto ciò in termini di guadagno economico. Noi abbiamo il diritto di credere, e lo hanno le nuove generazioni – cui affideremo i nostri villaggi, le nostre comunità e il mondo – che l’amicizia non è una parola vuota o un sentimento passeggero e illusorio, ma il più alto degli ideali umani, il più entusiasmante degli impegni e, nello stesso tempo, una possibilità alla portata di tutti, una ben raggiungibile vittoria su certo torpore egoistico o rassegnato che, a volte, inquina la bellezza del vivere. Noi già lo crediamo e lo proponiamo, con tutta la forza del cuore, con lo slancio della maturità, con la consapevolezza dell’esperienza: il domani sarà migliore dell’oggi, più umano e fraterno.

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Con brevi frasi ho tentato di far percepire che l’amicizia è qualcosa di assai più grande del sentimento che l’accompagna. Pur tuttavia, andando col pensiero ad Erwin, per il quale facciamo tutto questo, e con il quale alcuni di noi hanno vissuto minuti, ore e giornate di indimenticabile, di totale amicizia; pensando a lui e percependo, ancora, la dolorosa realtà del silenzio delle sue labbra, non possiamo fare a meno di ammettere che l’amicizia è, pur anche, un sentimento profondo, in noi, purificatore dell’anima e nobile.

L’impossibilità di esprimerla ad Erwin, e di ricevere da lui i segni tangibili dell’atteso contraccambio, continua a sorprenderci, quasi non riuscissimo ad ammettere il suo definitivo distacco terreno; e, per certi aspetti, è effettivamente così.

Come successe al momento in cui apprendemmo la terribile notizia, ci coglie un senso di vertiginoso stordimento e l’anima si dibatte, lacerata dal dolore, tra l’interrogativo del perché e la tentazione di non ammettere l’accaduto, trovando rifugio in un comprensibile ma irragionevole: «Sarà mai vero?». E’ inutile, non ci sono risposte, tanto meno esaurienti…

Sappiamo d’aver avuto in Erwin un grande dono ed egli continua ad essere per noi uno sprone a dare il meglio di noi stessi, cominciando dal presente ed oltre ogni presente, verso orizzonti larghi, e, quando Dio vorrà, infiniti, come quelli ai quali, con uno scatto improvviso, lui è giunto.

Al rifugio «Quintino Sella», sul monte Rosa, una targa riporta una poesia di Tagore, che a me sembra, anzi sono certo sia stata, nella sostanza, anche l’ultima preghiera di Erwin:

Io sono qui, [Signore,]

soltanto per cantare

il tuo canto;

nel tuo meraviglioso universo,

dammi

il mio piccolo posto.

Ancora grazie d’essere venuti.

NOTE

[1] Lettera di Renza, Pietro, Monica e Paolo Malvezzi, di Seveso (MI), del 6-7 luglio 2005.

[2] Ibidem.

[3] Da questo punto alle parole «Al vostro gemito corrisponde il nostro impegno…» il testo è stato pubblicato ne «La Voce di Fiume» del novembre 2005, p. 13

[4] «La Rivista Dalmatica», n. 1, gennaio-marzo 2005, p. 21.

Paluzza, il duomo di Santa Maria.

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