DON FLORIANO, I campanót e i segnali di tempesta e di fuoco

Dagli innumerevoli appunti dei diari (1928-1984) di don Ernesto Ampezzan, arciprete di Fusine, in Val di Zoldo, nostra parrocchia, apprendiamo molte cose. Ad esempio che il 31 luglio 1976, facendo campanót, venne rotta la campana piccola. [1]

Lo scampanio del campanót veniva fatto dai giovani due volte all’anno e tutta la comunità ne andava orgogliosa e l’ascoltava in una specie d’euforia collettiva.

La prima volta era giusto come questa sera, [2] ossia il 23 giugno, vigilia di San Giovanni Battista, compatrono di Zoldo, per un compatronato risalente a evidenti collegamenti familiari con l’antica e prestigiosa curazia cadorina di Vinigo, in comune di Vodo di Cadore e di cui tale santo è titolare; da essa, infatti, provenivano alcuni dei nostri antenati, ossia alcune delle famiglie originarie della valle del Maè o di Zoldo.

La seconda volta era (ed è) alla vigilia del patrono, San Pellegrino delle Alpi, quindi al pomeriggio e alla sera del 31 luglio, poiché la festa patronale è sempre stata celebrata, come giusto, il 1° agosto.

In teoria, al campanót avrebbe dovuto seguire ritmi precisi, previamente concordati tra i due o tre campanari, che l’eseguivano poi manualmente (con le orecchie ben tappate dal cotone), facendo battere il batacchio della campana loro affidata, secondo quei tali ritmi concordati, alterni e sovrapposti, veloci o lenti, e con le sue giuste pause. Molto bravi, per quel che sappiamo, sono nel far campanót i giovani di Vigo di Cadore, non per niente comune confinante con la Carnia, dove (a Zuglio, presso la pieve vescovile di San Pietro, la cui festa cade dunque tra pochi giorni), esiste addirittura una scuola apposita per campanari. In teoria – dicevamo – perché a volte succedeva che qualche giovane, per se dà fià, per avere uno slancio non richiesto e battere colpi all’anarchica, saliva sul campanile con qualche bottiglietta di grappa o d’altro, di cui non s’attardava a vedere il fondo. E così, con sconcerto dei paesani, l’atteso campanót diventava un frastuono che non si vedeva l’ora finisse e le autorità pubbliche sopportavano proprio per rispetto alla gente, e non altro, pazientando però d’anno in anno sempre meno. Uno di questi eroi, di cui ben sappiamo il nome, non avendo alcuna cognizione di come si faceva il campanót ritenne si dovesse usare non il batacchio, ma un martello. Il che, in vero, si potrebbe anche fare, ma iuxta modum, cioè con buon senso e, soprattutto, non colpendo mai con eccessiva forza e mai e poi mai sul bordo della campana. Macché: il nostro fece proprio ciò che non era da fare e la campana venne addirittura infranta sul bordo; il che significa che perse completamente il suono, perché senza il bordo la vibrazione del suono prodotta dal batacchio non si forma più e una campana, così conciata e ch’ascoltarla fa il suono d’un mestolo in una secchia, deve essere rifusa, con quel po’ po’ che ciò costa!

Il fattaccio, veramente vergognoso, successe a Coi il 31 luglio 1976; per fortuna (si fa per dire) a essere rotta fu, fra le tre, la campana piccola. E a quel punto, che fare? Chi avrebbe pagato? Alla vergogna successe l’omertà: nessuno sapeva nulla! Per fortuna di tutti si fece avanti una famiglia benefattrice, quella dei Rizzardini Giažinti, che prese l’occasione per fare, in spirito di fede, un dono alla chiesa: una campana ancora più grande, sicché quella che in quel momento era la grande venne a essere la mezzana, la mezzana fu la piccola, la piccola fu rimossa e venne fusa, e Coi si trovò ad avere una campana nuova, grande come non mai; veramente ex malo bonum! Tanta la vergogna da una parte, tanto e più l’onore dall’altra, alla famiglia generosa e per nulla obbligata a tale generosità!

Il farsi avanti di questi benefattori non dev’essere stato molto prolungato, perché già un mese dopo, in data 2 settembre 1976, don Ernesto poteva scrivere: «Ho telefonato alla fonderia di campane di Vittorio Veneto e sono venuti [in] sopraluogo a Coi; dopo di che ho firmato il contratto per una campana nuova, di oltre 4 quintali, e la posa in opera delle strutture portanti, in metallo: lire 6 milioni e oltre».

In attesa della soluzione, l’arciprete aveva però fatto in tempo a scrivere (alla data casuale del 31 maggio) questa nota (scritta nel suo dialetto un po’ particolare): «Un proverbio e chi dai Coi: “L’é inutile (nó conta nia) sonà dal tenp, incant che la tenpesta l’à dat”. Conoscendo questo proverbio, chi dai Coi i se ciapava senpre in tenp a sonà apena ch’i vedeva ‘l pericol de tenporal. E perché i avese da fa autretant incant che l’era segn de fuec, chi del comun i avea pensà de conprà na campana sola, ma granda e capaze de se la sentì da per dut, perché chi dai Coi i la sonase apena l’era pericol de fùec. Ma ades, se la campana la é róta, che puéli fa? Eco ‘l bisogn de provede, ma par provede na campana pì granda vocorr anca al castel par la poià e anza patuž par la comprà. Forža Coi! ». [3]

Da questa nota siamo confermati nel fatto che venisse suonata una campana all’approssimarsi dei temporali; non sapevamo, invece, che gli abitanti di Coi fossero famosi per la celerità nel recarsi a suonarla, in tali circostanze atmosferiche; né che venisse suonata la campana piccola, per quanto il proverbio potrebbe far pensare alla grande; il proverbio dice, infatti, rivolto alla tempesta: «Buta, buta, prima che la Pelegrina sóne!», «Buttati, buttati, tempesta, prima che la campana di San Pellegrino suoni!»: un’autentica sfida tra forze contrapposte… E, per terzo, non sapevamo neppure che quello era il segnale dato alle altre chiese della conca alto-zoldana, per iniziare a suonare contro la tempesta. E, infine, ignoravamo che da tale fama di celerità fosse nata persino l’idea di fare degli abitanti di Coi dei «guardiani del fuoco», con l’incarico di prevenire quelli degli altri villaggi nell’avvertire del pericolo d’un incendio; l’iniziativa non ebbe seguito, ma è già simpatico sapere la si fosse pensata, da parte delle autorità comunali. Come sono lontani quei tempi! Oggi, in materia di sicurezza antincendio, è, per fortuna, tutto diverso!

Ancora un’annotazione: come riportato anche nel Comunicato n. 669, del 3 agosto 2012, al n. 25, «Nel 1635 giunse in visita al villaggio e alla cappella di San Pellegrino il vescovo Malloni; nel 1654 giunse il vescovo Berlendis, che tornò nel 1669. Dagli atti della visita risulta che la chiesa aveva il campanile e due campane». Insomma, a quanto sembra, Coi ha sempre avuto un amore particolare alla sua chiesetta, al suo campanile, alle sue campane.

E, almeno per quel che riguarda quest’amore, possiamo dire che nulla è mutato dal 1976, dal 1654 e dai tempi più antichi; tutto diverso, dunque, nella tecnica antincendio, ma non tutto e in tutto diverso!

NOTE

[1] Alla data del 1° agosto 1976 è scritto: «Domenica. […] A Coi ieri sera nel fare scampanio (campanót) hanno rotto la campana più piccola».

[2] L’articolo è stato spedito la prima volta, come comunicato n. 1105, il 23 giugno 2013.

[3] «Un proverbio e quelli di Coi: “E’ inutile (non giova a nulla) suonare per il mal tempo, quando la tempesta è venuta”. Conoscendo questo proverbio, quelli di Coi si prendevano sempre a tempo nel suonare, appena vedevano il pericolo di un temporale. E, perché avessero da fare altrettanto quando ci fosse stato un indizio d’incendio, gli amministratori del Comun avevano pensato di comperare una campana sola, ma grande e capace di farsi sentire in ogni dove, perché quelli di Coi la suonassero appena c’era pericolo d’incendio. Ma adesso, se la campana è rotta, che possono fare? Ecco il bisogno di provvederne, ma per provvedere una campana più grande serve anche il castelletto, per appoggiarla, e anche il denaro [alla lettera: il truciolato] per comperarla. Forza Coi! ».

Scampanellate donnesche.

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