DON FLORIANO, Lo spirito mitificatore dell’antica cultura alpina. La mia esperienza diretta. I

Val di Zoldo, al laghetto del Vach in autunno.

Di Don Floriano Pellegrini

Scaricabile in PDF al link: PELLEGRINI, Lo spirito mitificatore alpino 

INDICE.

Due parole di presentazione

Introduzione

L’avversione delle culture dominanti

La mia resistenza

Elementi dello spirito mitificatore

– Lo stupore

– Il senso del provvisorio

I soggetti del mito

– La mónt

– I cucù e le žìrighe

Al vént e la vénta

E domani?

La val di Zoldo dallo Spiz Zuel.

DUE PAROLE DI PRESENTAZIONE.

Questo testo venne preparato ancora nel luglio 2000 e fu distribuito in alcune copie di 36 pagine, in formato dattiloscritto, a cura del Centro culturale «Amicizia e Libertà». Venne apprezzato da varie persone attente alla vita sociale e sensibili alla cultura, tra le quali devo ricordare il senatore Luigi Gui, di Padova, già membro della Costituente, che mi scrisse: «Mi compiaccio per la Sua interpretazione personale della cultura ladina. Fa bene a valorizzare questa forma di cultura popolare, tanto ricca di umanità» (cfr. «Il Gazzettino di Belluno» del 26 settembre 2000, p. 2). Nel 2001 lo studio è stato poi inserito nella raccolta, sempre dattiloscritta e in numero limitato di copie, intitolata «Lo spirito ladino di Zoldo» (pp. 101-115).

La presente è l’elaborazione definitiva. In essa mi riconosco ancora totalmente. Spero di essere compreso, prima ancora e aldilà dell’essere condiviso, nei sentimenti e nelle considerazioni che, con un pizzico di poesia, mi sono sentito in dovere di fissare, per il presente e per il domani. Aggiungo un pensiero grato al prof. Vito Pallabazzer, per quanto da lui fatto a sostegno, valorizzazione e diffusione della cultura alpina, in particolare quella ladina, cioè quella di cui faceva parte; e per la sua bontà d’animo.

Per rispetto di tale cultura, e anche di lui, in questa rielaborazione (definitiva, come dicevo) ho tolto i riferimenti al presunto carattere ladino, che nel 2000 e 2001 erroneamente attribuito ancora allo spirito analizzato e descritto. Da alcuni anni ritengo e diffondo la convinzione che la qualifica di ladino debba, assolutamente, essere riservata alla Ladinia, ossia alla Comunità ladina strictu senso, quella storica, delle cinque valli del Sella, di cui fa parte anche la Magnifica Comunità di Rocca Pietore, che era stata assoggettata, sì,.alla città di Belluno (durante la Serenissima), ma lo era con statuto proprio, autonomo.

Prego tener conto di queste precisazioni per la corretta valutazione delle copie dattiloscritte diffuse in precedenza.

INTRODUZIONE.

È ancora così, come negli anni lontani dell’infanzia e dell’adolescenza. Anche se nella vita ho sperimentato il freddo dell’avversità e le tenebre dell’indifferenza, oso credere che il mondo non sia pietra e nient’altro che pietra, che soltanto l’amore riuscirebbe a trasformare; oso credere che sempre vi è un nuovo inizio e che ogni presente dia il benvenuto a una nuova primavera; sempre! Conservo forse l’illusione d’un sogno?

Eppure, l’ammetto: ho il coraggio di non tradire la fede nella bontà del mondo e dei suoi innumerevoli abitatori, piccoli e grandi, quale mi venne comunicata, senza particolari insegnamenti, nell’irripetibile quotidianità di allora. Alle parole altisonanti e ai concetti violenti di qualche dotto successivo, preferisco la tavola disadorna alla quale sedetti, piccolo alunno affamato di sapere, mentre m’erano maestre le mani callose dei genitori, le schiette risate della brigata dei giovani compagni e le favole delle anziane pastore. Devo rendere onore alle scintille di bontà e saggezza che allora mi vennero elargite, nonostante fragilità ed errori; avviarmi alle ulteriori stagioni terrene con l’abito culturale, povero ma dignitoso, di cui fui rivestito, piuttosto che nei scenografici paludamenti di altre culture, le quali, nonostante i molteplici servigi che m’hanno reso e di cui continuo a giovarmi, nell’anima mi sono rimaste estranee.

Allontanandomi dalla città e dai suoi centri periferici (che pur amo, e tenacemente, per le incontestabili ricchezze di umanità che custodiscono in sé e di cui si impregnano), lasciando un po’ alla volta dietro di me i villaggi della pianura e del fondovalle, ho la sensazione struggente di compiere un atto di coraggio; quello di avviarmi a ignorare, e abbandonare al loro scontato destino, le piccole sicurezze, le rassegnate quieti, le invisibili stampelle di un’esistenza fin troppo programmata e immemore, ormai, dei grandi slanci del piacere: ogni bellezza come tale, nelle sue stupende corporeità, continua a sorprendermi; oh, ma queste culture sono divenute irrimediabili scatole di frigidume! Via via!

Allora non è più solo un’ardente consapevolezza dell’istinto, ma una scelta. L’anima, vòlta a nuovi rapporti di valore, si fa vigile e soppesa cose e situazioni. Molte di esse, allontanandomene, smarriscono la loro effimera valenza, sbiadiscono, ammutoliscono, scompaiono nel nulla. Io, al contrario, lo sento, mi elevo; abbandonando tali realtà fisiche e culturali, ho la gioia di elevarmi. Mi vado affrancando da troppe convenzioni, stagno di morbosità, mentre pregusto abitudini semplici, amiche di vere conquiste dell’anima, spose fedeli della libertà.

Non domando alle altre culture di essere caritatevoli con la mia, ma giuste, per quanto ciò, per esse, sia meno facile e meno gratificante. La cultura nativa dell’uomo e della donna di montagna non soffre complessi di inferiorità, né si raccomanda alla legittimazione delle altre, che si sono autodefinite ufficiali ; ufficiale può essere solo ciò ch’è reale.

È diffuso il pregiudizio che quanto è diverso dall’ufficiale gli sia, con ciò stesso, inferiore, peggiore e forse persino di pericolo. Attività professionali, usi e costumi, visioni morali e di vita e linguaggi costituiscono invece, con la loro varietà, un necessario completamento e una ricchezza vicendevole. Si ascolta con piacere il dolce lamentarsi del violino e, non meno, lo squillare vivace della tromba; è bello il rosso e si gustano le sfumature del giallo; alla società serve il muratore robusto e il magistrato coscienzioso; la donna e l’uomo, il giovane e l’anziano hanno pari dignità sociale. Non c’è democrazia ove consenso e dissenso siano predefiniti (un consenso subdolo e obbligatorio non è tale), né vi è compiuta democrazia senza un completo pluralismo, che senta il valore delle diversità, in ogni settore.

Io tendo e sto lavorando, come i miei antenati, per la costruzione di comunità più compiutamente umane, nelle quali tutte le persone, specialmente quelle che vicende varie e sovente dolorose hanno chiuso nei ghetti della marginalità sociale, si sentano a loro agio. Lo spirito è il muratore, il magistrato, l’uomo e la donna, ha la franchezza del giovane e la saggezza dell’anziano. Aspiro a una democrazia dello spirito!

L’AVVERSIONE DELLE CULTURE DOMINANTI.

Se «la libertà è un mito», io sono un mito; se la possibilità della libertà è una superstizione, io però non sono superstizioso. Mito e superstizione sono all’opposto, ma vengono confusi e indebitamente presentati come consanguinei.

Sei superstizioso tu che credi, come m’insegnavano da bambino, ci sia una relazione tra te e un fatto esterno, per il semplice motivo che si è avverato. Tu che dici: «Qualcuno pensa a me», perché si sono sciolti i lacci delle tue scarpe; che temi una disgrazia, perché hai rovesciato l’olio; che fai celebrare una messa, perché hai sognato un defunto. È immorale! Sostenere che il bene e il male sono causati dall’esterno, oltre la propria volontà, porta a ritenersi innocenti o, peggio, incapaci di atti moralmente buoni o malvagi. Disonesti e creduloni hanno nella superstizione il primo capitolo di un comodo alibi. Caricare un fatto esterno di valenze tanto condizionanti, è dare alla propria coscienza lassa un pretesto di disimpegno. Non c’è libertà dove non c’è assunzione di responsabilità, dove si delega ad altri la realizzazione essenziale del proprio io. La creduloneria, come la superstizione, imprigiona.

Il mito, al contrario, aiuta a trascendere. Come tale è, può essere, una strada della libertà. Ho avuto l’onore, il raro privilegio d’essere partecipe e testimone, giorno dopo giorno, per lunghi anni, d’un ambiente umano creatore e concretizzatore dell’antica saggezza dello spirito mitificatore. In questo dinamismo interiore e, in potenza, tale da coinvolgere l’intera realtà personale e il proprio Sitz im Leben, ho percepito me stesso, l’io e la comunità, due poli d’un tutt’uno. E, nel contempo, ho avuto modo d’intuire l’insidia d’un graduale svuotamento e allontanamento, impercettibile a breve scadenza ma reale, da tale, antico dinamismo interiore. La consapevolezza di simile perdita, lì dove pur si è manifestata, m’è apparsa nel modo di una incompleta sofferenza, nel rimpianto del «bel tempo della giovinezza», di «quando si cantava, alla sera, seduti a crocchi sui prati falciati o sulla panca davanti all’abitazione», di «quando ci si aiutava e voleva più bene»; e, anche in questi casi, con una sofferenza attutita dalla considerazione prosaica che, tuttavia, pure allora «mancavano tante cose e c’era grande miseria», da una sofferenza cioè ormai svuotata delle motivazioni più forti che dovevano starle alla base.

Le nuove, odierne, culture dominanti hanno tentato di spacciarsi, per l’ennesima volta, quali salvatrici e redentrici. Nel nome generico del progresso, è stato dichiarato legittimo ogni scempio: la lingua materna? un volgare dialetto; le usanze secolari? Manie dei vecchi; gli abiti caratteristici? i costumi di un popolo trapassato, indossati dagli stessi interessati per il piacere masochistico di far godere le civilizzate tribù dei visitatori dello «zoo dolomitico» ove, tra orme di dinosauri, scheletri e reperti archeologici, stelle alpine e colorate distese prative d’alta quota è possibile (ma forse imprudente e non auspicabile) incontrare qualche esemplare dell’homo silvestris, una razza in decisa via di estinzione.

Nel dinamismo dello spirito mitificatore io, come un animale dalla gola profonda, mi sono a lungo abbeverato! E, intanto, i «sacri» testi della scuola dell’obbligo c’insegnavano a deriderlo. Apprendevamo, ad esempio, che gli antichi egiziani, greci e latini ne avevano ricavato una combriccola di Dèi, un po’ irosi e un po’ goduriosi, scarafaggeschi e tonanti. Tra noi ragazzi, c’era chi trovava spunti per prolungate meditazioni su Venere, amica dell’aurora «dalle dita rosate», e chi si entusiasmava al dardo saettante di Apollo. Finalmente – ci spiegavano -, su colli sempre fatali spuntò il sole del vero, figlio della civiltà latina (erede universale di tutto il bene posseduto o intuito dalle antecedenti) e del soffio del cristianesimo (l’ultimo ramoscello fecondo della nobile ma decaduta pianta dell’ebraismo). Verba Domini, ecco le parole del signore del momento, cui tutti avrebbero culturalmente dovuto offrire almeno un granello d’incenso.

Frottolosando di tal passo, le successive vicende storiche e morali, letterarie e religiose, economiche persino, erano spiegate in termini assai semplificati: la civiltà novella era ostacolata – povera indifesa! – dai nuovi popoli barbarici (gli screanzati!), era ferita nell’unità dagli insubordinati dell’Oriente e arrogantemente chiamata a verifica dai protestantacci; poi era sottoposta ad altre, innumerabili lotte di conquista e di difesa, per ergersi, sempre giovane, sulle ceneri sparse degli avversari, annientati. Studiare, per credere! La storia non è forse scienza? Carlo Magno e Napoleone, le crociate e le conquiste dell’America del sud e del nord: tutto, un’immane lotta tra la Città della luce e quella delle tenebre, la santa e la santificanda, altari da innalzare e idoli da abbattere; tutto ciò che non era nato o non era stato lavato nell’acqua del battistero culturale, doveva essere sgozzato. Nella sua verità, il cristianesimo non era e non è questo, ma col pretesto della fede troppe volte questo è stato attuato. Carro ideologico come un altro, sul quale salire, viste le buone garanzie di sistemazione sociale; e molti continuano a invocare l’intervento di questo carro, per schiacciare la testa ai «serpenti» delle libertà culturali risorgenti.

Da quanto ci spiegavano, sembrava chiaro: il vizio di personificare la natura e di affibbiare sentimenti, nomi, attributi umani e divini alle energie del cosmo era stato sradicato. Sì, aveva costituito un’ombra penosa delle civiltà (chiamiamole così, per carità, dicevano) precristiane; lo spirito del mito s’era poi attardato tra i selvaggi dell’Irlanda e dell’Africa, fino a tempi recenti, e tra gli indigeni di questa o quella parte del globo terrestre; con qualche manieruccia forte, però, era stato sconfitto. San Giorgio e il drago, figlio di quello dell’Apocalisse. Raggiunto l’uso di ragione, all’umanità non sarebbe più stato permesso attribuirsi facoltà cognitive al di fuori della ragione stessa, Dèa gelosa, che ha la dichiarata (perversa?) tendenza di squalificare tutto ciò che non si agganci alla sua locomotiva.

LA MIA RESISTENZA.

Ahimè, io continuavo a respirare a pieni polmoni lo spirito creatore dei miti! E non opponevo resistenze intellettuali, perché non avevo coscienza del mio dinamismo interiore; né ho cessato di comportarmi così, quando l’ho acquisita.

Respiravo i fremiti della vita come aria dell’anima; sentivo che essa, in quelli, si fortificava, mentre li percepivo muoversi liberi e creatori su ogni cosa. Mi accorgevo che tale sensibilità, l’insieme dei sentimenti con i quali mi relazionavo all’ambiente fisico e sociale, non era una mia invenzione, quanto la condivisione, sempre più cosciente, di una sensibilità diffusa e che l’ambiente viveva con naturalezza.

Lo spirito creatore dei miti era dunque ed è una capacità, tramandata nel vissuto quotidiano, senza che alcuno avesse mai sentito il bisogno di descriverlo; come erano tramandate di generazione in generazione, senza alcun bisogno di scrittura, le migliaia di informazioni tecniche relative alla lavorazione dei campi, alla coltivazione dei boschi, all’allevamento del bestiame, alla conservazione della salute; le migliaia di frasi sapienziali, le novelle, le consuetudini, i riti e, persino, i pregiudizi.

Per raggiungere una piena consapevolezza della facoltà, gioiosa, di accostare la realtà pre-umana tramite lo spirito mitificatore, ho impiegato molto tempo. Se non avessi avuto modo di continuare l’attività di pastore e agricoltore, fino a ventiquattro anni; se fossi emigrato per lavoro, come tutti i miei coetanei; se non avessi avuto la possibilità di fare gli studi classici e di teologia cattolica, non avrei intuito la portata di ciò che, al riguardo, esperimentavo e vivevo, né avrei posseduto gli strumenti culturali coi quali mettere in atto un primo lavoro comparativo.

ELEMENTI DELLO SPIRITO MITIFICATORE.

Il cielo è blu? Sì e no; è un’ illusione ottica o realtà? Questo e quello. La neve cade, s’agghiaccia e si scioglie e non c’è più; ma c’è mai stata o era acqua, solo acqua, in diversa forma? E le montagne, enormi e durissime, quali appaiono, cosa sono in verità? Basta che una goccia di pioggia cada dopo l’altra, per il piccolo spazio di qualche millennio, e si sgretolano.

È la logica del fiore: stupendo, abbagliante di bellezza, che vive – certamente -, che certamente esiste, ma torna terra e, per ben che vada, letame per altri fiori, egualmente luminosi di fugace bellezza.

Alla base del dinamismo dello spirito mitificatore vi è lo stupore, ossia la gioia primordiale, dell’intuizione; alle fondamenta di quello razionalizzatore vi è lo sforzo del concetto. Tra stupore e ragione vi è la dialettica che passa tra intuizione e concettualizzazione. La prima scrive le frasi iniziali del pensiero; ed è ancora un suo abbozzo, un pulsare di immagini, che potrebbero configurarsi alla fine quantomeno in due realtà: quel viso potrà essere di maschio o di femmina, quella cima essere la vetta di un monte o il cocuzzolo di un colle, l’adagio musicale potrà aprirsi in un larghetto o avviare il movimento finale, il grigio evolversi in un cenerognolo o appesantirsi in un nero; quello dello stupore è il momento in cui si percepisce il possibile come reale: tutto è possibile e, come potenzialità, è quel tutto. La ragione, invece, chiude la porta della conoscenza; quel che è dentro è salvo, ciò che resta fuori è l’altro, materia per ulteriori concetti, per successivi dati, egualmente positivi ossia definiti ma distinti.

«Fare» i concetti, razionalizzare, ridurre a positivo è necessario, ma è pure un astrarre dalla vita, che procede in modo «irrazionale», senza soluzioni di continuità.

Diciamo «oggi», «ieri» e, così dicendo, poniamo a guardiana del confine tra i due l’ora di mezzanotte. Più in generale, dividiamo il tempo in mesi, anni, periodi; ma tra mese e mese, anno e anno, epoca ed epoca vi è, in realtà, una continuità sostanziale; il medioevo non cessò improvvisamente, sostituito dall’epoca moderna, né questa è stata sostituita all’improvviso dalla contemporanea.

Quello che avviene al livello della dimensione tempo, si verifica pure al livello della dimensione spazio; la cultura mitificatrice lo percepisce in modo vivissimo. Se ci chiediamo: «Qual è il punto in cui il torrente termina e inizia il fiume? È forse ove s’innalza l’ultimo abete che termina il bosco?», è facile intuire l’indeterminatezza spaziale tra i due termini di confronto.

Più difficile percepire la continuità spaziale quando si osserva la relazione tra soggetti diversi, ad esempio tra un albero e il terreno su cui sorge, la volpe e la boscaglia che attraversa, l’uomo e il campo che ara. Se la collocazione spaziale dipende da una precisa causa, tale causa costituisce il tipo di rapporto: la falce è posta vicino all’erba per tagliarla, la mano s’accosta all’acqua per rinfrescarsi… Quando, invece, il rapporto tra soggetti, diversi per natura, è determinato direttamente dall’ambiente-natura, e tanto più è determinato da esso, è necessario indagare, individuare il motivo di tale collocazione, ossia della continuità causale. Perché, alla fin fine, il procedimento logico della causalità (ad ogni effetto deve corrispondere una causa proporzionata e sufficiente) è nient’altro che una razionalizzazione di quello della «continuità».

Lo spirito mitificatore corrisponde al primo tentativo di chiarire il rapporto temporale e spaziale tra gli esseri della natura-ambiente e tra quel particolare abitatore della natura e dell’ambiente circostante che è l’uomo, il montanaro stesso.

Sviluppare lo spirito mitificatore significa, di conseguenza, prolungare fin dove ragionevolmente possibile il momento fuggevole e permanente dell’intuizione, anche se, nel frattempo, vengano date o siano date delle motivazioni razionali in merito al tipo di rapporto tra gli oggetti di cui ci si va occupando, nello stupore dell’intuizione.

È giusto e per certi aspetti persino doveroso conservare in sé la capacità di tale primo momento cognitivo e percettivo; ammettere che tra l’io conoscente e i soggetti oggetto del proprio sguardo e del proprio rapporto non vi è un distacco assoluto ma una continuità vitale. Di questa però nel momento razionalizzatore si ha una percezione limitata, ossia riservata (limitata, appunto) ai caratteri particolari e funzionali di quel tipo di relazione, ad esempio quella sociale e professionale.

Man mano che la relazione diventa affettivamente coinvolgente, e proprio per questo ritorno al «cuore» di entrambi, la continuità tra soggetti conoscente e conosciuto si fa, invece, più evidente e «interscambiabile». Quel soggetto, quella persona sono, ad esempio, l’amato sposo, l’amata madre. I dati temporali e spaziali della loro nascita e del loro peso corporeo, come qualche altro, interessano secondariamente; la conoscenza affettiva e la consapevolezza della continuità relazionale permette un vedere in profondità e ben oltre i primi aspetti.

Ma questa capacità non dovrebbe essere ridotta, come avviene nelle culture «dominanti», ai rapporti interpersonali, bensì conservarsi e ampliarsi anche nei rapporti con il mondo animale, vegetale e persino con quello «inanimato».

Da ragazzo, ho avuto occasione di osservare il concretizzarsi del rapporto prerazionale con l’ambiente, e il suo venir accettato e condiviso, in qualche modo, dagli adulti.

Ecco come lo spirito mitificatore entrava all’opera: noi ragazzi andavamo nel bosco, o per gioco o per badare alla mandria. Correndo da un pianoro all’altro, da un ruscello all’altro, scorgevamo un masso, una conca, un abete, un ruscello e decidevamo, di quando in quando, che questo o quello doveva portare un certo nome. La scelta non era determinata dal capriccio; sì, a noi piaceva prendesse quel nome, ma esso era in relazione a una nostra avventura o a qualche sensazione lì vissuta e, come nel caso dello sposo e della madre, tale sentimento o fatto ci sembrava così importante che sentivamo il bisogno di chiederne il riconoscimento da parte degli adulti. Rientrati, alla sera, nel villaggio, raccontavamo la scelta del nome e gli adulti di solito l’accettavano. Un masso ci sembrò avere la forma di una zappa, venne chiamato e si chiama ancora Sas de la Zapa; un abete era servito da riparo notturno per un cavallo, e non fu (per l’abete) piccolo onore: divenne, per tutto il paese, Al Péz del Cavàl. In un posto, vicino a un masso, era stata avvistata una volpe? Quel posto fu battezzato e sarà in eterno Al Sas de la Bolp.

Il dinamismo interiore a «oggettivizzare» i rapporti tra persone e luoghi, persone e cose, era un gioco piacevole e teoricamente senza limiti. Alcune denominazioni, come le accennate, ebbero fortuna e vennero assunte persino dalla toponomastica ufficiale; altre duravano una stagione, un mese, un’ora; che importava? Ne erano già state inventate di nuove, secondo l’esigenza di nuovi rapporti e di nuove avventure; il dare il nome era solo una parte del «gioco», quella finale e più evidente, perché la tendenza a perpetuare e «oggettivizzare» i rapporti partiva ben prima e andava ben oltre tale espressione, importante ma non necessaria.

Mitificare non è, dunque, dare una spiegazione razionale dell’esistenza e degli esistenti, costruire ad esempio una cosmologia o una tecnica agraria, neppure una psicologia o una morale; neppure una teologia, ovvero un sistema di pensiero su Dio. Non è atto di ragione, che non esclude (e tanto meno le si contrappone), ma che precede e di cui conserva a sé stesso la facoltà intuitiva anticipatrice. Creare miti è atto che va in parallelo con quello di fede, qualora però quest’ultimo sia considerato in sé, senza altre definizioni teologiche, nelle quali sarebbe fin troppo facile scivolare.

Ritengo, osservando ancor meglio, sia paragonabile soprattutto all’atto del gioco, ricco com’è della ragionevolezza e della bellezza del gioco. Il quale può esistere a patto che abbia e i giocatori rispettino delle regole precise e predefinite, eppure tali che, qualora non giovassero più a rendere il gioco piacevole, possano essere mutate. Devono essere le regole del gioco a cambiare, qualora divengano fonte di asperità e spiacevolezza, adeguandosi alla realtà dei giocatori, non viceversa; l’«adesso» del gioco, ciò che lo giustifica, è la piacevolezza. Il mito è valido nella misura in cui piace e giova a rendere piacevole la realtà; meglio: nella misura in cui aiuta la realtà a rivelarsi nella sua innata piacevolezza, nonostante ogni asperità e, persino, avversità.

La seconda base dello spirito mitificatore è il senso del provvisorio: costante, forte, lievemente drammatico e, nel contempo, rasserenante; in termini più razionali, il senso della contingenza.

L’esperienza quotidiana mostra che tutto esiste e tutto passa; uomini e cose non sono da sé stessi e, quindi, non esistono in senso assoluto, ma sono stati e sono resi partecipi dell’essere. Ci sono, per misteriosa gratuità, e nel volgere di un certo tempo non ci sono più; eppure, frattanto, ci sono, ovvero esistono, continuano a ricevere l’esistenza. Gli esseri del mondo, tra cui l’uomo, vivono la loro traiettoria terrena sospesi a una fuggevole concretezza, assaporando quella vita che continuamente viene loro data e continuamente sfugge loro di mano; sul presente batte il sole ed è già la notte, e l’alba eternamente risorgente.

La provvisorietà, pur spiacevole, non è (non era) percepita con senso di angoscia, come un limite da sconfiggere o, in qualche modo, scongiurare; è accettata, come un dato di fatto. L’attenzione è sempre puntata sul positivo del presente e nell’oggi è dato, ed è quindi moralmente giusto, essere felici. Non conosco altra cultura tanto capace di volgere la realtà in senso ottimistico e, materialmente, scherzare e sorridere (e ridere, fragorosamente, in gruppo) quanto quella mitificatrice. Tale serenità, condivisa, non può essere giudicata, frettolosamente, come incoscienza della irreparabile caducità, quanto piuttosto consapevolezza, più o meno esplicita, che essa in ogni caso ci sarà ma dopo il presente e che questo presente, frattanto e quindi in quanto tale, è nel segno del positivo.

La vita, così intesa, è ancora una volta paragonabile al gioco, guidato da regole mutevoli, teoricamente e in potenzialità, al pari degli esseri ai quali si applicano. Tutto è segnato insieme da definitività e da fragilità, accede alle sorgenti dell’essere e vi si allontana, senza pretese e senza attese e, pertanto, quando più non sarà, senza rimpianti. Con immutato senso di gratitudine fino all’estremo attimo di presente. Lasciandosi condurre oltre il tempo e lo spazio, come sempre, e nella certezza che, terminato il presente, ancora una volta nulla è perso.

Ho la sensazione che questa cultura non conosca il concetto di nulla metafisico, per quanto a rigor di termini sia noto che il nulla non esiste. Ma c’è un «diventar nulla», collegato con un esistente particolare, con lo spegnersi vitale dell’io di qualche essere caro e, in prospettiva, del proprio. In tal senso il niente esiste, quale sinonimo di svuotamento totale di un’entità che, pur in modo contingente, esisteva. Ed è ben miserabile la consolazione che c’è una continuità materiale, di massa biologica in decomposizione e trasformazione in altri esseri; l’io termina la sua esistenza terrena. Il corpo e le sue funzioni biologiche danno il segno e quasi la misura della progressiva caducità, con il preavviso dello svuotamento finale. La mancanza di una vera sensibilità e preoccupazione metafisica, distinta da quella religiosa e dunque ormai sul piano della fede, conferisce alla cultura alpina arcaica una specie di non-soluzione del problema; ma ciò avviene, per l’appunto, perché il problema non è posto in termini di razionalità. Resta il venir meno della vita, il fatto, ammesso con l’ovvietà attribuita a tutte le cose: quella del provvisorio.

E resta il presente, la grande sosta in noi della gratuità della vita. Il momento in cui il nulla manifesta la sua inconsistenza e la verità emerge nel suo splendore, e a noi è dato di accoglierla. Il momento in cui l’eternità entra nel tempo, rivestita di sole, e pronuncia il nostro nome. In cui la tenerezza vince la paura e la tenacia alza sulle sue braccia la gloria. In cui il cuore dona all’amore nuovi spazi e la gelosia dell’altrui possesso cede il passo alla gioia della conquista. Il momento di scrutare il mondo dall’alto della tua bellezza e di trovarlo amabile; di chiedere al tuo cuore di uscire dagli inganni della solitudine, per gustare «il latte e il miele», la terra che dall’eterno ti è stata promessa.

[1. Continua]

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