DON FLORIANO, Ultime acquisizioni sui Baili e il castrum di Zoldo

Nella foto: Il grande costone del Levazono che sale verso la cima del monte Punta. A sinistra si intravedono alcuni tetti di Col di Cella e Pieve, più sopra alcuni tetti di Casal; la fila di case al centro mostra, da sinistra, il villaggio di Fedele e, dal grande palazzo verso il centro (compreso) il villaggio di Bragarezza. Per Levazono storico si intende la fascia che dal Saccon (tra Dozza e Pieve) sale fino a circa metà costa, dove c’è un torrentello (circa dove nella foto c’è una zona scura nel bosco, poco sopra il palazzo). In primo piano si vede una casa di Fornesighe, che sembra attaccata a Bragarezza, mentre tra una sponda e l’altra c’è il vallo del torrente Mareson. La valle di Zoldo era interessata al Bellunese soprattutto sul versante delle cime qui di sfondo, mentre dal lato del Levazono/Fornesighe interessava di più ai cadorini o patriarchini, finché entrò tutta nella giurisdizione della Civitas Belluni.

Poche settimane fa mi sono incontrato con i coetanei (del 1956) Giovanni Battista De Pellegrin, detto Tita, di Sommariva, e Romano Pellegrini, di Cella.

Ad un certo punto, la conversazione è andata sui Bàili di Coi e di Sottorogno (abitante a Casal), poi inaspettatamente si è allargata. Tita ha detto: «Anche nella parte bassa della Val di Zoldo esiste una località detta Bailo e, inoltre, ci sono delle famiglie chiamate “dei Baili”». Ne parleremo più avanti, dopo aver raccolto qualche altro dato ma già ora, in quanto alla località, abbiamo saputo che si trova un po’ prima del bosco del Fagarè (la zona del Bosconero dov’è caduta, anni fa, la grande frana nel lago di Pontesei). Per intenderci in maniera molto semplice: uscendo da Zoldo verso Belluno, ossia appena imboccato il Canale dopo la galleria di San Giovanni e lasciata a destra la località dell’Insonnia, si procede ancora per circa tre/quattrocento metri, finché si giunge in un punto accanto alla strada ove ci sono delle panchine, per un’eventuale sosta dei passanti. Ebbene, proprio lì, il costone di sinistra ha, un po’ più in alto della strada, al lùach del Bàilo, «il luogo del Bailo» o, anche, il Bailo è quel costone come tale.

Secondo Tita quel luogo o posto è sempre stato, a sua memoria, la zona nella quale venivano assegnate, dal Comune in qualità di amministratore pro tempore dei beni regolieri, le legne de la part agli abitanti di Sommariva, cioè la loro quota annua di legna da riscaldamento, che è – come noto – uno dei diritti reali collettivi dei regolieri sia di Zoldo come di qualsiasi altra Regola.

Ho chiesto informazioni allo storico cav. Romano Gamba su tale lùach del Bàilo, ma ha detto che non ne aveva mai sentito parlare, il che rende tanto più preziosa l’informazione del Tita. Gamba ha però aggiunto, di suo: «So di un appezzamento nel Fagarè che era dei Signori Pellegrini di Dozza e Cella. Come fossero giunti ad avere tale proprietà, non saprei». Anche questa notizia, inattesa, ha la sua importanza. Si trattava di una specie di vizza o area loro riservata all’interno della proprietà collettiva? Piuttosto che una servitù d’uso o vizza era una loro vera e completa proprietà? Sembra fosse proprio una loro proprietà boschiva. E, dunque, era stata acquisita dai Pellegrini quando il Fagarè non era ancora una proprietà collettiva o regoliera? Era stata loro concessa con qualche investitura vescovile? Rientrava nella liquidazione del loro fortunato ed ottimo servizio di priori all’Ospedal di San Martino del Canal di Zoldo?

Per intanto sappiamo dell’esistenza di un’area boschiva chiamata Bailo confinante (sul lato sud, verso il Canale) con il vasto bosco del Fagarè; e sappiamo dell’esistenza pure di un bosco dei Pellegrini di Dozza e Cella all’interno del più vasto bosco del Fagarè.

Mi sia consentito di fare alcune considerazioni così come vengono, senza eccessivo rigore storico. Osservo che in tutti i casi in cui compare il termine o nome Bailo esso ha a che fare, in qualche modo, con il maso di Levazono e con i De Pellegrin/Pellegrini. Nei documenti sul Levazono del sec. XIII, conservati all’Archivio Storico del Comune di Belluno, si accenna ad un comproprietario nobile bellunese e ad altro comproprietario che abitava al Col di Astragal, guarda caso dove la tradizione ha sempre parlato di un «castello da Romano» e di cui esistono ancora alcuni imponenti pietroni, utilizzati come base (visibilmente impropria) di un fienile! Un’altra tradizione orale ha sempre parlato di un castello a Sommariva. La pieve, con il Levazono (da Fedele a Dozza a Casal, Cella, Calchera e Sorogno) sta loro nel mezzo. Di un castrum Zaudi parla lo storico Giorgio Piloni. E dunque? Ammesso, senza difficoltà, che non si trattasse di castelli di gran mole, dovremmo pur intenderli almeno come un sistema di guardia e difesa che, unico, si strutturava tra Col di Astragal, Cella e Col di Cella (con Casal sopra e la pieve sotto) per finire al Col o promontorio di Sommariva. Un castrum Zaudi, pertanto, con due almeno torri di guardia o gardóne (come al castello di Lavazzo, dove rimane solo la Gardona est), una sopra Astragal e una a Sommariva.

Non ho mai dato gran peso all’idea dei castra detti da Roman e di Somarìa, ma l’emergere, quale ora si affaccia alla nostra attenzione, d’un nesso tra tali castra (tramandati esclusivamente dalla tradizione orale o scritta tarda, di registrazione della prima) impone un minimo di «presa in considerazione» d’un possibile fondamento in re o reale (oggettivo). Il nesso è dato, come detto, dal rinvenimento in tutti e tre i casi (cioè anche nel terzo, quello del castrum Zaudi o centrale, a meno che questo nome non indicasse il sistema difensivo nel suo complesso più che una terza struttura materiale di guardia o residenza) di un loro rapporto col maso di Levazono (toponimo tanto antico che era andato completamente nel dimenticatoio), di questo maso con la figura (anch’essa solo ora in riscoperta) dei Baili e, infine, con la casata dei De Pellegrin (meglio: de Pellegrin), in vari casi evolutosi spontaneamente (ma non sempre) nella forma più italiana di Pellegrini. Questi i dati certi finora a nostra disposizione. Dai quali mi sorgono un nuovo interrogativo e una conclusione secondaria certa.

Sulla conclusione certa, essa è esponibile in poche battute: se il Bailo del Fagarè (mi sia consentito, almeno per ora, di chiamarlo così, ma potrebbe essere stato il contrario, ossia il Fagarè del Bailo) fosse stato un’area vincolata al Bailo (funzionario) in modo ch’egli potesse disporre d’un approvvigionamento di legna buona da riscaldamento, non sarebbe stato nulla di strano e impossibile e, a dire il vero, ora ci rendiamo conto che stiamo scoprendo l’ovvio, perché non poteva essere che così e siamo felici d’averlo appreso o, se si preferisce, scoperto. È poi altrettanto ovvio che, una volta venuta meno la carica del Bailo e ristrutturati diversamente i rapporti dei regolieri con il nuovo emissario di Belluno, il Capitanio del Consiglio dei Nobili, la proprietà boschiva bailare sia entrata nel patrimonio collettivo dei regolieri di Sommariva, ossia dei dipendenti di quell’antichissimo (ipotetico) castrum che, dopo l’arrivo dei Bellunesi, era stato sede (unica o con quello di Astragal) dei Bailo del conte vescovo Civitatis Belluni; Bailo che, per il resto, deve aver avuto a sua disposizione anche il maso di Levazono.

L’interrogativo: una presenza militare, per quanto minima, dislocata in un’area di transito secondario sembra ingiustificata e, dunque, perché mai venne costituita?

Si osserva facilmente che i castra erano tutti posizionati in punti rialzati, di facile ed ampia osservazione e quindi controllo sull’area sottostante. Sappiamo che gli stessi masi, quindi i poderi liberi, più o meno signorili che fossero, erano strutturati con l’abitazione padronale e il fabbricato agrario (tabià e stalla) a monte delle proprietà prative e dei campi (si pensi, un caso per tutti, al maso di Pianaz, le cui abitazioni erano a ridosso del pendio verso Coi, e aveva i prati tutti a sud, verso Talinera, compresa, fino al torrente Maè e al Rù De Vido. Ma, in una società di masi di liberi ossia boni homines, quale venne riconosciuta già ai primi del sec. XIII quella di Zoldo con la sentenza del da Camino, non aveva senso un castrum di controllo delle economie o degli spostamenti dei masieri ed era persino inimmaginabile l’idea di una sommossa popolare.

Potremmo pensare, pertanto, più che altro ad una funzione militare di ordine pubblico ordinario, simile a quella che svolgono nei paesi le stazioni dei Carabinieri o poco più. Direi che l’attenzione non debba essere portata, pertanto, soprattutto o solo al fatto dell’essere tali castra (ammesso e non concesso ve ne fossero tre o uno che si risolveva in poco più di tre torri di guardia) in posizioni eminenti e funzionali al controllo degli spostamenti sul territorio, quanto che fossero lungo le strade di allora, che non correvano (come ora) nel fondovalle ma a mezza costa. E, nel caso qui in esame, sono la mulattiera verso il Canale, Longarone e la Val Belluna, e quella da Fornesighe, Villanova, Pra/Dozza, con diramazione verso Sommariva/Campo e, in altra direzione, verso la pieve, Col di Cella e Col di Astragal, per proseguire verso Villa, Dont, Goima, il passo Duran oppure Fusine ecc. Se e in quanto questa considerazione regge, come a me sembra, devo concludere (a me stesso prima che ad altri e – lo ammetto – con un che di sorpresa, ma non posso fare diversamente) che la strutturazione difensiva castri Zaudi era precedente all’arrivo dei Bellunesi. Si configura infatti, fuori d’ogni dubbio, come un presidio di tutela di Cadorini che, lavorando la terra e allevando i loro bestiami nelle piane di Campagna (sotto la pieve), Sommariva, Campo, Sottorogno, da una e dall’altra ad Astragal con le sue varie sub aree, potevano essere infastiditi, anche gravemente, dal sopraggiungere di mandriani o comunque uomini Bellunesi provenienti da sud (dal Canale) o da nord (da Dont dopo aver superato il Duran). Non è certo possibile, infatti, pensare ad una struttura militare (castrum) bellunese a difesa contro un indesiderato arrivo di altri Bellunesi; e, fosse stata contro i Cadorini, non vedo proprio a che potesse servire, allora, un castrum al Col di Astragal. La conquista bellunese di Zoldo, guidata dal vescovo conte, sarebbe stata perciò, in pratica, uno sfondamento di simile linea difensiva, con la nomina in loco di un suo rappresentante, il Bailo. Ma, descrivendo la conquista in questi termini bellicosi (si era però pur sempre di fronte a castra), si rischia di farle prendere una connotazione solenne che in realtà non deve aver mai avuto, come ho cercato di spiegarmi in un articolo di qualche mese fa.

Ritengo più facile, per non dire ragionevole, ci sia stato un qualcosa che ha condotto, o per via di accordo o di accettazione, a far sì che i Bellunesi venissero ad essere detentori di una giurisdizione in Zoldo, anche sulla duplice comunità cadorina stanziata sul e ai piedi del colle della pieve di San Floriano (si ricordi: non è una intitolazione bellunese, ma cadorina, già in atto a Chiapuzza, cioè nel territorio cadorino tra gli attuali comuni di San Vito e di Cortina d’Ampezzo) e quella della piana di Astragal. Non dimentichiamo neppure che, secondo lo storico Romano Gamba, i de Pellegrin/Pellegrini erano detti Cadorin, cioè provenienti essi pure dal Cadore; il che significa che i Baili stessi sarebbero stati dei Cadorini entrati al servizio dei Bellunesi, ovvero che i Cadorini di Zoldo ad un certo punto sentirono vantaggioso che il vescovo-conte di Belluno li facesse entrare nella sua protezione e giurisdizione e allora (si ricordi anche questo) la Magnifica Comunità di Cadore non era ancora sorta!

A riguardo di Astragal, nella cui area compare un toponimo di base romana quale Ligont, mi domando se, a differenza di quanto finora detto e ripetuto, il suo nome non derivi tanto da aggettivo descrittivo del suolo lavorato a striscie, ossia da lastricatus o qualcosa del genere, ma proprio dalla base castrum / castricatum / castello, come a dire «Area del Castello». Rischio di essere ridicolo, e forse lo sono, ma metto «nero su bianco» questa assonanza, che m’è sembrata suggestiva, ben sapendo che a volte alcune cose dimenticate appaiono poi, quasi per caso e all’improvviso, in una luce nuova, quella vera, anche se ad essa nessuno pensava.

Fosse stato o no il castrum Zaudi una struttura d’origine cadorina poi diventata bellunese, in ogni caso non era una struttura privata, poiché il militare presuppone sempre l’esistenza e la volontà di un potere politico. Nel caso d’origine cadorina, dovremmo perciò parlare, più correttamente e a scanso di qualche equivoco, d’origine patrarchina e dei primi Zoldani non – come ho fatto sinora anch’io – di cadorini ma di patriarcali abitanti in Val di Zoldo. Ha la sua importanza che la pieve e il castello rientrassero (e ancora rientrino) nel regolato (si veda Rigolato, in Carnia) o territorio della Regola Grande di Fornesighe e tutti i De Pellegrin/Pellegrini di Zoldo provengono da Fornesighe, passando o non passando per Levazono, poi Dozza e Cella, o dal Levazono direttamente a Coi. E, si sa, Fornesighe era villaggio collegato con la miniera patriarcale (del patriarca di Aquileja) di Valle Inferno, pur posteriore, a qualche chilometro a est del villaggio stesso, sul fianco settentrionale della strada verso il passo di Cibiana [di Cadore]. Bragarezza stessa è, com’era tutto l’esteso maso del Levazono, villaggio della Regola di Fornesighe, per quanto ora ricostituita legalmente come Regola a sé stante (il che, per motivi che non sto qui a illustrare, poteva succedere, come infatti è successo). Il castrum Zaudi sarebbe stato perciò un fratello, minore ma pur sempre fratello, del castrum Cadubrii, del castrum Tulmetii e di altri montani del patriarcato principesco longobardo del Friuli. Né ci è impossibile ignorare che alcuni duchi longobardi del Friuli erano d’origine bellunese, per cui una transazione riguardo ai loro stessi diritti su Zoldo sarebbe stata più una «questione tra loro» che una conquista di territori di avversari confinanti. Né è stata ancora chiarita la posizione, in ogni caso notevole, della signora Izza e di suo nipote, all’epoca del vescovo conte Giovanni «il conquistatore»; da un documento che la riguarda sembrerebbe, infatti, che uno spostamento di giurisdizione in Zoldo fosse avvenuto all’epoca di quei personaggi, per un qualche loro accordo. Poiché si trattava di pascoli e masi, ai Bellunesi interessava inizialmente, in ogni caso, di Zoldo, la disponibilità terriera ai fini pascolivi; è evidente che la Civitas Belluni guardava a Zoldo come a un’area di pascoli assai desiderabili e i masi già costituiti, da qualche cadorino o bellunese che fosse, dovevano fare i conti con la pressione espansiva dei pastori mandati dai Signori Bellunesi, laici ed ecclesiastici, che proprio in quel periodo si stavano costituendo come Capitolo della chiesa vescovile o cattedrale.

 

Vecchia abitazione ad Arsiera, il villaggio dei minatori di Valle Inferna, gradualmente trasferitisi poi a Fornesighe.

È noto che i Pellegrini di Cella (da Žéla) sono un ramo dei Pellegrini, già De Pellegrin, di Dozza e prima di Fornesighe. Ma è meno noto che la base della loro casa patriarcale, per quel che resta, è costituita da uno stanzone quadrangolare, molto interessante dal punto di vista storico/architettonico per quanto assolutamente bisognoso di tutela legale e di recupero materiale. Tale stanzone, descritto in un precedente articolo (che avrei intenzione di ripubblicare perché poco conosciuto), è chiamato le Žéle, al plurale, in considerazione di due spazi ricavati al suo interno. Le Žéle sono visitabili su gentile permesso concordato con uno degli eredi, che si sono sempre (e sempre più) mostrati consapevoli dell’importanza documentaria del fabbricato e ai quali mi affianco per sollecitare, in modo serio e convinto, quanti di dovere a intervenire per mettere in giusta luce questo piccolo ma prezioso gioiello della comunità di Zoldo. Qual era la funzione de le Žéle? A cosa devono il loro nome? Sono anch’esse rientranti, come attuale resto archeologico più evidente, nel complesso difensivo del castrum di Zoldo? Potrebbe essere. Hanno a che fare con una presenza di cavalieri Templari? Potrebbe essere e, in questo caso, si darebbe ragione alla tradizione popolare giunta fino a noi, che parla di celle monastiche; sappiamo bene, infatti, che i Templari erano dei monaci cavalieri. Fosse pure un resto di presenza templare, sarebbe importante e le celle sono due, assieme agli spazi comuni, come nelle mansioni templari…

Ma credo che la risposta più esatta ci provenga dallo studio (del 1846) del nobile cremonese e mantovano Giovanni Francesco Del Bue, pubblicato integralmente qualche mese fa sul blog «Dalla Casata di Levazono». Parlando delle «prove di nobiltà procedenti da feudi cospicui», in una nota, il Del Bue descrive «la natura de’ feudi secondo le [loro] classi». Parla, perciò, di feudi maggiori, minori, infimi, retti o proprj, non retti ed improprj, ligi, franchi, ereditari, parzionati, individui, dividui, misti, antichi, paterni, ecclesiastici, condizionali, mascolini, comuni, nobili. Leggiamo dei primi:

« I feudi maggiori, comprendevano le dignità de’ regni, ducati, principati, marchesati e simili, con prerogative e diritti chiamati regali; e questi, secondo la legge, non erano trasmissibili e, però [= perciò], quando si acquistavano per sé e pei figli, s’intendeva de’ figli come figli non come eredi, e perciò chiamàvansi di dignità regale.

« Feudi minori, erano così le città come le terre, le castella ed altri luoghi abitati e aventi giurisdizione sopra vassalli, escluso però l’alto dominio, la vera dignità, le regalie maggiori ed altri diritti del principato; cosicché il feudatario ne’ casi d’appellazione e ricorso soggiaceva del tutto all’infeudante, e non diventava principe, ma barone o domicello.

« Feudi infimi, si chiamavano quelli dei beni rusticali senza giurisdizione sopra vassalli, chiamati valvassini, che avevano fatto acquisto d’un feudo franco.

« Feudi retti o proprj, chiamàvansi gli stabiliti da legge e regole feudali certe, e aventi vera, retta e propria ragione, natura e condizione feudale; appellàvansi anche con distinto nome di militari e passavano agli eredi; né potevano essere tolti per delitto di fellonia.

« Feudi non retti ed improprj, erano i degeneranti dalla retta ragione feudale: tali erano i non militari; mentre ad esserne investiti non domandavano giuramento di fedeltà e finivano dentro un tempo determinato. Così fatti, erano anticamente chiamati della gastaldia, guardia, camera, cavena e soldata. Guardia in lingua germanica altro non significa che custodia; e feudatario di guardia valeva quanto custode d’un podere, altro essendo l’averlo in feudo, altro tenerlo in guardia. Chiamavasi anche feudo di camera o di cavena, per il che dinotàvasi la camera o l’erario destinato a conservar monete, mentre sovente quel denaro che quivi riponèvasi spettava alla regia camera. Dicèvasi, poi, feudo di camera in grazia dello stipendio assegnato dal sovrano ai vassalli. La camera era una cella, il feudo di tal nome era un’annua distribuzione di vino e d’altre cose fungibili ed alimentarie, che facevasi ai soldati, come s’usava in Polonia, e perciò appellàvasi anche soldata. La denominazione poi di feudo di cavena tanto significava, quanto di cella, cantina o granajo.

Fatta questa lettura, e magari ripetuta alcune volte per cogliere ogni sfumatura, ci appare evidente che Zoldo poteva essere stato un feudo dell’ultimo tipo, cioè militare in senso improprio, pur parlando di castrum, senza diritto di successione dell’investito, e le Žéle essere state una specie di forziere o magazzino comunitario o essere diventate tali, dopo essere state per qualche periodo sede di qualche soldato di guardia. Non abbiamo elementi per fare una scelta tra l’una e l’altra ipotesi. Mi colpisce anche quel nome di Soldata, che è molto simile (almeno sembra) a quello di Zoldo; che Zoldo derivi il nome da tale guarnigione formata da alcuni (in ogni caso non molti) militari? Abitavano essi nel castrum da cui derivò il nome Zaudum, cioè il centrale? Il loro comandante militare, autorità ad un tempo anche politica, stava ad Astragal o Sommariva? Di sicuro questi non stava a Forno, che diventa località abitata, come dice il suo nome, solo dopo la scoperta nel 1177 delle miniere del Fursil, in quel di Colle Santa Lucia, e la conseguente costruzione in Val Fiorentina e in Val di Zoldo di vari forni fusori per l’estrazione del ferro dal materiale ricavato da tali miniere. La prima area abitata stabilmente in Zoldo fu, effettivamente, quella lungo la linea ideale tra Col di Astragal e il promontorio di Sommariva, quindi nelle prossimità del castrum. Il motivo ci è chiaro in parte, in parte no; restano in sospeso molti interrogativi, per quanto siano già illuminanti i dati, minimali, cui siamo giunti.

Don Floriano Pellegrini

Suggestiva fotografia delle Cime del Mezzodì, nel Canale di Zoldo.

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