KING, 1989, Umanesimo cristiano nella Venezia del Quattrocento

Veduta veneziana», acquatinta a colori di Abel Truchet Louis [Versailles, 29 dicembre 1857- Auxerre, settembre 1918]. Senza titolo e senza data. La lastra: mm 260 x 174; il foglio: mm 447 x 420. Firma dell’artista manoscritta a matita in basso a destra; a sinistra il numero di tiratura, anch’esso manoscritto: «36/50». 

Facciamo conoscere ben volentieri questo saggio, di ormai trent’anni fa, estratto da: «La Chiesa di Venezia tra Medioevo ed età moderna» (Contributi alla storia della Chiesa di Venezia . 3), pp. 15-54, Edizioni Studium Cattolico Veneziano; diffuso in internet al link: https://www.academia.edu/1116636/Umanesimo_cristiano_nella_Venezia_del_Quattrocento_1989_?auto=download . Il testo integrale qui può essere aperto, letto e scaricato al link: KING, 1989, Umanesimo cristiano nella Venezia del Quattrocento 

Qui, di seguito, una nostra trascrizione dei primi tre capitoletti.

Margaret L. King

Umanesimo cristiano nella Venezia del Quattrocento * [1]

1. Le caratteristiche peculiari dell’umanesimo veneziano

Gli studiosi delle due opposte sponde dell’Adriatico (d’Europa e degli Stati Uniti) come Salvatore Camporeale, Delio Cantimori, Antonio Corsano, John d’Amico, Paul Oskar Kristeller, John O’Malley, Charler Stinger, Giuseppe Toffanin, Charles Trinkaus ed altri ci hanno insegnato che l’umanesimo non era un programma né pagano, né necessariamente secolare, né esclusivamente laico. [2]

Uomini di Chiesa di ogni livello vi erano coinvolti: sia monaci e frati che giuristi e teologi, che preti e prelati di alto rango. Il cristianesimo, inoltre, era la matrice del pensiero umanistico così come lo era stato per la scolastica medioevale. Alcune delle opere più audaci e geniali dell’umanesimo italiano implicano la riconciliazione fra entusiasmo per gli studia humanitatis ed i principi cristiani che pochi umanisti erano pronti a rifiutare, o l’applicazione di quei metodi ad una miglior spiegazione di questi. Questo problema, più di qualsiasi altro, è centrale nell’opera di Francesco Petrarca, Coluccio Salutati, Ambrogio Traversari, Giannozzo Manetti, Lorenzo Valla e, al di là delle Alpi, Erasmo, Lefèvre d’Etaples, John Colet e Tommaso Moro. Tuttavia, molti umanisti italiani erano dei laici e questa corrente di pensiero nel suo insieme contribuì moltissimo al processo di secolarizzazione del pensiero europeo. Una contraddizione si nasconde nel concetto di umanesimo cristiano e gli umanisti si sforzarono di superarla, esprimendo dei principi di etica cristiana in dialoghi di stile classico, preparando nuove traduzioni dei Padri o della Bibbia dal greco e dall’ebraico, trovando un significato cristiano nel messaggio aristotelico, stoico ed anche epicureo della filosofia antica, scoprendo il punto d’incontro tra l’essere umano completamente evoluto e l’onnipotente divinità: Dio incarnato, l’uomo divinizzato.

Ma queste prospettive, per mezzo delle quali gli umanisti al di qua e al di là delle Alpi ripensarono il cristianesimo nei termini di nuova presa di coscienza, non si trovano prontamente a Venezia. Tra gli umanisti di questa città non si trova alcun rifiuto della metafisica scolastica o della predicazione tradizionale, nessuna difesa della poesia pagana, nessuna censura degli ecclesiastici, nessuna sopravvalutazione del sentimento dell’affetto sulla ragione o della volontà sulla conoscenza, nessuna reinvenzione dell’uomo o di Gesù. Tuttavia, l’umanesimo era fiorente a Venezia ed i veneziani, e tra loro gli umanisti, erano religiosi. Questa notevole concordia dei funti focali del cristiano e dell’umanista ha a che fare con la natura dell’umanesimo veneziano, plasmato dalla cultura patrizia in maniera particolare, così che fosse in armonia con le necessità della Repubblica e della Chiesa che coincidevano. [3]

L’umanesimo veneziano perciò non metteva in discussione l’interpretazione tradizionale del cristianesimo tardo medioevale. Il suo cosmo, universale e sociale, era ordinato gerarchicamente, da Dio fino alla materia, come dal doge fino al servo, e il ruolo dell’umanesimo era quello di venerare e lodare questo splendido ordinamento, non quello di criticarlo. L’umanesimo veneziano non sviluppava alcun concetto del valore dell’individuo rispetto alla società o della creatura umana rispetto a Dio in modo da minare il profondo rispetto per le istituzioni ufficiali o per la trascendenza del divino. Poteva difendere i valori tradizionali del cristianesimo con un lessico moderno e classicheggiante così come poteva battersi per le tradizioni della vita veneziana. Inoltre poteva farlo senza equivoci, poiché la professione di fedeltà al cristianesimo non implicava, a Venezia, un tradimento verso Roma: Venezia aveva la sua Chiesa particolare, i propri santi, la propria gerarchia religiosa, i propri papi (tre veneziani furono eletti papi durante il Quattrocento) e, a metà del secolo, il proprio venerato patriarca, prodotto dalla stessa classe dominante da cui uscivano i suoi dogi, senatori e umanisti. A Venezia c’è simbiosi, invece che tensione, tra i termini «cristianesimo» e «umanesimo». La trattazione seguente sull’umanesimo cristiano a Venezia metterà in evidenza quest’armonia, dimostrando la massiccia partecipazione degli ecclesiastici alla cultura umanistica, descrivendo la pietà personale degli umanisti e prendendo in esame il contenuto cristiano di molta della loro produzione.

2. Ecclesiastici umanisti

Una caratteristica particolare dell’umanesimo veneziano fu la massiccia partecipazione ad esso degli uomini di Chiesa; fu di tale vastità – il loro numero oscillò tra un quarto e un terzo di tutti gli umanisti – che il movimento può difficilmente definirsi «laico» o «ecclesiastico», ma appartiene ad entrambi i gruppi. Dei 92 umanisti che costituiscono il nucleo principale degli umanisti veneziani nel periodo che va dal 1400 al 1490, 26 erano ecclesiastici: 18 provenivano dalla nobiltà e gli altri otto dalla classe dei cittadini (sette) o da quella dei forestieri residenti in città. [4] Nonostante gli uomini di Chiesa non costituiscano il maggior sottogruppo degli umanisti veneziani (questo onore tocca ai patrizi laici, che sono 46, la metà esatta del gruppo) essi formano la seconda sezione per grandezza di questa classe. Nessun altro gruppo di professionisti si avvicina, come numero, a quello degli uomini di Chiesa. Insegnanti e segretari (dai cui ranghi in Italia complessivamente usciva il grosso degli umanisti di professione) sono solo sette ed otto, rispettivamente, degli umanisti veneziani; i professori sono solo due e tre i medici.

Più di due terzi degli ecclesiastici umanisti erano nobili, usciti dalla stessa classe sociale dei patrizi laici che dominarono l’umanesimo veneziano del XV secolo. Provenivano dalle stesse illustri famiglie nobili che dominavano la vita politica veneziana. I cognomi dei Barbaro, Barbo, Dandolo, Donà, Foscari e Marcello si ritrovano sia tra i capi della città che tra i suoi prelati. Se ci si imbatte meno nei Barozzi, Correr, Miani, Quirini, Vallaresso, Zane, Zen, questi non erano però degli sconosciuti.

Discendenti da famiglie ricche e potenti, i prelati patrizi, come i patrizi laici loro confratelli, favorivano nei loro interessi intellettuali quegli studi che alimentassero valori utili alla loro Repubblica, ai cui successi era strettamente legata la loro classe sociale. Essi agivano da intermediari tra le esigenze poste dalla Chiesa e dalla città alla vita intellettuale e furono delle figure chiave nella creazione di un umanesimo cristiano che si armonizzava con gli ideali civili e laici.

Gli umanisti ecclesiastici, sia nobili che semplici cittadini, presentavano una testimonianza eccezionale di onori e risultati conseguiti. Tra i ventisei citati ci furono diciannove vescovi o arcivescovi, dei quali due, inoltre, furono nominati patriarchi (Marco Barbo di Aquileia e Lorenzo Zane di Antiochia), tre divennero cardinali (Marco e Pietro Barbo, e Pietro Foscari): di questi tre, uno, Pietro Barbo, divenne papa, col nome di Paolo II.

Le diocesi rette dai vescovi umanisti comprendevano un catalogo delle conquiste veneziane di terraferma (Belluno, Bergamo, Brescia, Feltre, Padova, Treviso, Verona, Vicenza), delle colonie marittime (Candia, Cattaro, Croja, Pola, Spalato, Zara) e delle chiese veneziane (Castello, Torcello). Sette vescovi umanisti ressero la diocesi di Padova ininterrottamente dal 1409 al 1507: Pietro Marcello il Vecchio, Pietro Donà, Fantino Dandolo, Pietro Barbo, Jacopo Zeno, Pietro Foscari e Pietro Barozzi. Due dei nove ecclesiastici umanisti che non divennero vescovi raggiunsero altre cariche elevate. Gregorio Correr, nipote del cardinal Antonio Correr e del patriarca Giovanni Barozzi, zio di Pietro Barbo, era abate dell’antico monastero di San Zeno di Verona e fu designato ad essere patriarca di Venezia nel 1464, subito prima della sua morte. Pietro Dolfin fu abate di San Michele di Murano e generale dell’ordine camaldolese.

Gli ultimi cinque ecclesiastici – quattro semplici cittadini e un nobile – ebbero decisamente delle carriere più modeste. Taddeo Quirini, fratello del più conosciuto Lauto (umanista laico), di una nobile famiglia legata a Creta, fu diacono a Candia, canonico a Treviso e Brescia, vicario generale e arciprete a Padova. Giovanni Lorenzi, autorevole grecista, servì come segretario il cardinale Marco Barbo e, seguitolo a Roma, divenne di conseguenza minutante della Curia romana, segretario e bibliotecario del papa. Il prete corso Pietro Cineo servì come precettore nella casa di Andrea Cappello a Venezia, e integrava le sue entrate celebrando nelle funzioni nella chiesa di Santa Maria Mater Domini. Andrea Contrario e Francesco Negri, altri due preti nati a Venezia e figli l’uno di un ferrarese, l’altro di un immigrato dalmata, vissero insegnando e scrivendo, andando in cerca insistentemente di migliori ricompense da parte di nobili e monarchi, prelati e papi.

Come si è visto, i generi di carriera ecclesiastica presso gli umanisti veneziani vanno da gradi assai bassi fino al massimo, con una notevole presenza nelle più alte gerarchie della Chiesa. In questo senso, essi erano tutti umanisti cristiani: rappresentanti della Chiesa ufficiale, attendevano a studi umanistici e producevano opere umanistiche. Anche se non contribuivano ulteriormente all’umanesimo cristiano di Venezia, il loro grado nella Chiesa influiva sulla scelta delle loro occupazioni letterarie: il corpus delle opere letterarie composte da ecclesiastici prende ipso facto colore dalla posizione sociale degli autori. tutti, però, non si impegnavano in spirito apostolico, né possiamo esser sicuri che l’appartenenza ufficiale della pietà fosse, in ogni caso, sincera e neppure dovremmo supporre che solo gli uomini di Chiesa potessero essere devoti. In verità, tra gli umanisti veneziani erano comprese molte persone di una indiscutibile profonda pietà: alcuni erano ecclesiastici, altri laici.

Onorato da tre papi (non solo dal suo concittadino, Paolo II, ma anche da Sisto IV e da Innocenzo VIII), Marco Barbo (1420-1491) aveva detenuto molti benefici ecclesiastici redditizi e aveva aggiunto carica a carica: vescovo di Treviso e poi di Vicenza, patriarca di Aquileia, vescovo di Palestrina e infine cardinale. La sua particolare missione era quella di suscitare un’azione comune contro l’avanzata turca, e a questo scopo aveva viaggiato in Germania, Boemia, Ungheria, Polonia e Scandinavia dal 1472 al 1474 e aveva ispezionato ad Ancona, nel 1480-81, le difese dell’Adriatico. In un’epoca di vistosa ostentazione da parte di prelati facoltosi, egli visse nell’austerità e morì povero. Rivestito di un cilicio sul letto di morte, lasciò ai suoi eredi solo dei libri, poiché la sua ricchezza era stata divisa tra gli indigenti. [5] Accanto alla esemplare figura eroica del Barbo si può prendere in considerazione Pietro Barozzi (1441-1507), l’immagine modello del vescovo ideale.

La sua amministrazione di Padova dal 1487 alla sua morte fu uno sforzo indefesso. Nel 1488 pubblicò le costituzioni del sinodo diocesano, istituì un monte di pietà e fece da supervisore a delle riforme monastiche. Generoso verso i poveri come il Barbo, aveva donato largamente dalla propria sostanza e in un anno di carestia (secondo l’orazione funebre pronunciata per lui da Cristoforo Marcello) aveva rifornito la popolazione di grano e denaro, in quantità sufficiente a salvare molti dalla morte. Nello stesso tempo, egli fu scrittore prolifico, di opere che vanno dall’agiografia alla scienza politica: fu stimato per la sua conoscenza della matematica e della teologia nonché per gli studia humanitatis e noto per la sua condanna, nel 1489, della dottrina averroista dell’unità dell’intelletto, dottrina allora attuale nelle discussioni universitarie. La sua biblioteca di 354 volumi, successivamente dispersi, comprendeva opere giuridiche e teologiche, classici greci, latini e in volgare, e autori umanisti. Colto, competente, cortese, egli rispondeva alle aspettative che una personalità come Gasparo Contarini delineava nel più tardo: De officio episcopi. [6]

Non tutti i membri del gruppo degli umanisti ecclesiastici furono modelli di pietà religiosa come il cardinale Barbo e il vescovo Barozzi. La carriera di Lorenzo Zane (1429-1484), collegato con tutti e tre i papi veneziani del secolo, è un esempio di cattiva amministrazione episcopale o forse di peggio. [7] I preti Andrea Contrario (1410 circa-1473) e Francesco Negri (1452-dopo il 1523) erano «letterati» che giravano di corte in corte alla ricerca di una protezione mecenate soddisfacente e di una situazione migliore, ricerca che lasciava poco tempo libero per le opere pie. Il secondo dei due si lamentava, quasi alla fine di questo viaggio:

Non restat tamen quin pauper Niger, homo senex et iam ad scalarium annum accedens, sine aliquo sacerdotio aut proventu in summa paupertate vitam degat. Quod si virtuti premia iure speranda sunt, quid mihi spei reliquum est? qui per annos circiter quadraginta quinque in omni facultate et in utraque lingua et legi et scripsi. Legi tam publice quam privatim in plerisque locis multosque sub mea ferula in doctissimos viros eduxi … [8] [Non rimase tuttavia al povero Negri, vecchio che si avvicina al suo ultimo anno, senza alcun beneficio o provento, che trascorrere la sua vita nella più grande povertà. Ma se bisogna giustamente sperare che la virtù sarà ricompensata, che speranza rimane per me, che per 45 anni ho insegnato e scritto ogni disciplina e nelle due lingue? Ho insegnato sia pubblicamente che in privato in molti luoghi e sotto la mia frusta ho istruito molte persone dottissime …].

3. La ‘pietas’ dei laici

Non tutti i nostri ecclesiastici, perciò, mentre attendevano alla loro carriera sia ufficiale che letteraria, testimoniavano una profonda pietà, mentre invece lo facevano molti laici, tra cui troviamo alcuni dei maggiori artefici del regime politico di Venezia. Leonardo Giustiniani (1489-1546), fratello del patriarca Lorenzo, padre di Bernardo futuro uomo di Stato, abbandonò l’opera poetica giovanile e si volse alla composizione di laudi, un genere di canto religioso popolare di immensa importanza nel quindicesimo secolo. Esortato dal suo pio fratello, diede anche un nuovo indirizzo ai suoi lavori in prosa, dagli interessi secolari a quelli religiosi.

Nella lettera dedicatoria a Lorenzo della vita di san Nicola di Myra, che aveva tradotto dal greco, Leonardo scriveva:

Me etiam quotidie pro tua incredibili pietate adone ut studia cogitationesque meas ad beatam vitam animique immortalitatem adipiscendam potissimum conferam et post longam navigationem aliquando de Portu cogitem … [9] [Infatti ogni giorno mi esorti con la tua incredibile pietà perché io diriga i miei studi ed i miei pensieri soprattutto a raggiungere la vita beata e l’immortalità dell’anima e dopo aver navigato tanto a lungo finalmente cerchi il porto].

Egli esortava a far lo stesso l’amico Ambrogio Traversari, il monaco fiorentino: il Traversari dedicava troppa energia, lo rimproverava il Giustiniani, ad autori secolari, e avrebbe dovuto incaricare i suoi assistenti di trascrivere libri in vernacolo su argomenti sacri per un uditorio laico meno colto, ma capace di leggere e scrivere. [10] Quando ne aveva bisogno il Giustiniani andava in cerca di consolazione spirituale. Egli esprimeva la sua gratitudine a Francesco da Rimini, predicatore ispirato: Francesco era il suo portus e gli aveva dato la pace. [11]

Anche Francesco Barbaro (1390-1454), uno dei principali umanisti e uomini di Stato nel Quattrocento veneziano o meglio italiano, trovava ispirazione nelle parole di un frate predicatore: san Bernardino da Siena ebbe una grande predilezione per il Barbaro, tra altri veneziani che includevano l’umanista Bernardo Giustiniani e il doge Cristoforo Moro. Il Barbaro adottò l’uso, a cui Bernardino esortava i suoi seguaci, di mettere all’inizio delle sue pagine manoscritte il simbolo IHS circondato da raggi, in venerazione del Santo Nome. Dopo aver canzonato Poggio Braggiolini, più scettico, «Iam tandem gaudeo te factum esse Christianum» … [12] [Mi rallegro che alla fine sei diventato cristiano!], il Barbaro si volse ad altre guide spirituali, oltre al famoso san Bernardino. Mentre stava per partire da Zoppola alla volta di Venezia, consultò un certosino e un camaldolese: era saggio viaggiare, chiese con timore, quando c’era pericolo di peste? [13] Lo stesso, appartenente all’alta nobiltà, che era il protettore del dotto, del povero, dell’intera città di Brescia, si rivolse al monaco Giovanni da Capistrano e gli offrì in dono alcune botti di vino, indirizzandogli una semplice: «Te hortor igitur in Domino, ut ita me in fidem, ac tutelam tuam recipias» [14] [Ti prego dunque, in nome del Signore, di accogliermi nella tua fede e sotto la tua protezione].

Pronto a partir per Creta, colonia marittima [di Venezia], di cui era stato eletto doge, Candiano Bollani (1413-a1478) scrisse ad un monaco certosino una lettera, dedicandogli il suo commento alla Genesi e chiedendo al sant’uomo di pregare per il suo bene. [15] Ludovico Foscarini (1409-1480) parlò della sua paura dei demoni al monaco Moro Lapi (che era in contatto anche con gli umanisti Marco Barbo, Pietro Foscari e Giovanni Marcanova) e rivelò a Matteo Contarini (probabilmente già patriarca di Venezia quando fu scritta questa lettera) che il dolore fisico lo aveva innalzato all’amore di Dio. [16] Si lamentò con Lorenzo Giustiniani per l’immoralità dello sfoggio lussuoso e della brutalità dei suoi soldati ed esortò il giovane Jacopo Foscari, figlio del doge in carica, a leggere gli autori cristiani e a cercare la verità nel vangelo di Cristo. [17]

Questi pochi esempi rivelano qualcosa delle prospettive di questi eminenti umanisti veneziani: deferenti verso i religiosi, timorosi di ogni infrazione, grande o piccola, coscienziosi. I consigli ai giovani patrizi hanno lo stesso tono moralistico e uniscono l’invito a evitare il peccato con quello di occuparsi degli studi liberali. Quando Francesco Contarini (1424-1460) ricevette il dottorato in arti a Padova nel 1441, il suo amico Nicolò Barbo (1420-1462) lodò la sua impresa e quelle dei suoi antenati, delineando nel complesso un ideale aristocratico. Fin dalla primissima infanzia, il Contarini aveva riconosciuto il percorso che gli si apriva davanti

… indignum esse existimans a tantis maiorum suorum laudibus degenerare, non quemadmodum plurimi amplissimum a patre [cod. patrae] patrimonium relictum in luxu et voluptatibus consumere statuit, sed tanto animi desiderio atque ardore se ad litteras atque studium contulit [18] [Giudicando che sarebbe stato indegno venir meno alle grandi glorie dei suoi antenati, diversamente dagli altri decise di non sperperare in lusso e piaceri il ricchissimo patrimonio lasciatogli dal padre, ma si diede con grandissimo desiderio e ardore dell’animo alle lettere e allo studio].

Impegnato su questa strada, salì alle vette del massimo risultato accademico meritandosi ampie lodi per la sua erudizione. Nonostante fosse ancora giovane (aveva ventun anni all’epoca dell’orazione) la sua virtù l’aveva già reso un uomo. Possedendo fortezza, prudenza e giustizia, era soprattutto notevole per la sua temperanza, poiché « … non saepenumero sed semper omnem libidinem, omnem irrationabilem impetum animi firma et moderata quadam dominatione coercuit, compescuit, atque confregit» [19] [Non di frequente, ma sempre egli si impose ad ogni lussuria, ad ogni impeto irrazionale dell’animo, li represse e li fiaccò con un controllo fermo e moderato].

Lo stesso tema del dominio delle passioni in un adolescente, unito al fervore per lo studio, appare in altre orazioni di questo tipo: per esempio in quella di Pietro Marcello il Giovane (1454 c.-dopo il 1502) in onore del cardinal Domenico Grimani, [20] in quelle di Pietro Contarini (1446 circa-1495) in morte di Marco Corner, [21] di Leonardo Giustiniani in morte di Giorgio Loredan [22] ed in quella di Bernardo Bembo in onore di Cristoforo Moro, asceso al dogado. Il Moro, secondo il Bembo, aveva dedicato l’intera adolescenza allo studio della teologia e con la sua virtù cristiana si era meritato non solo la più alta carica della repubblica, ma anche un posto in cielo … [23] Nell’ideale adombrato da questi oratori umanisti, più sintomatico, forse, che le professioni individuali di pietà sollecita, si fondono l’ascetismo giovanile, il cosciente patriottismo, e la realizzazione cristiana.

La pietà diffusa e moralistica, abbastanza convenzionale, espressa casualmente nelle lettere ed orazioni degli umanisti, suggerisce che l’insieme degli atteggiamenti cristiani che ci si poteva aspettare dagli autori ecclesiastici si estese anche alla cultura umanistica laica, rendendo umanesimo cristiano e umanesimo veneziano quasi perfettamente concordi. Un esame delle opere composte dai nostri umanisti su argomenti cristiani rafforzerà questa affermazione.

NOTE

* Traduzione dall’inglese a cura di Simona Branca Savini.

[1] Un ringraziamento particolare va al professor Vittore Branca, per avere incoraggiato quest’impresa, al professor Paul Oskar Kristeller, il grande spirito dietro tutta la mia opera, alla professoressa Elisabeth Gleason e alla dottoressa Patricia Labalme per la loro sollecita e generosa assistenza.

[2] Solo alcuni esempi: S. Camporeale, Lorenzo Valla, Umanesimo e teologia, Firenze 1972; D. Cantimori, Umanesimo e religione del Rinascimento, Torino 1975; Corsano, Il pensiero religioso italiano dall’Umanesimo al giurisdizionalismo, Bari 1937; J. D’Amico, Renaissance Humanism in Papal Rome: Humanism and Churchmen on te Eve of the Reformation, Baltimora-Londra 1983 (Johns Hopkins University Studies in Historical and Political Science, Ser. 101, 1); P.O. Kristeller, due esempi tra i tanti: Le Thomisme et le pensée italienne de la Renaissance, Montreal-Parigi 1967 e, dello stesso autore, The Contribution of Religious Orders to Renaissance Thought and Learning, nel suo Medieval Aspects of Renaissance Learning, a cura di E. Mahoney, Durham, North Carolina 1974 (Duke Monographs 1), pp. 95-158; J.O’Malley, Praise and Blame in Renaissance Rome: Rhetoric, Doctrine, and Reform in the Sacred Orators of the Papal Court, c. 1450-1521, Durham, North Carolina 1979 (Duke Monographs in Medieval and Renaissance Studies, 3); C. Stinger, Humanism and the Church Fathers: Ambrogio Traversari (1386-1439) and Christian Antiquity in the Italian Renaissance, Albany, New York 1977; G. Toffanin, Storia dell’Umanesimo, 3 voll. Bologna 1950; C. Trinkaus, In our Image and Likeness: Humanity and Divinity in Italian Humanist Thought, 2 voll., Chicago-Londra 1970; dello stesso Humanism, Religion, Society: Concepts and Motivations of Same Recent Studies, «Renaissance Quarterly» 29 (1976), pp. 676-713. Alle opera citate vanno aggiunte le molte opera individuali sugli umanisti discussi (soprattutto Petrarca, Valla, Erasmo) e su altri che trattarono temi cristiani o parteciparono agli eventi contemporanei della storia e del governo della Chiesa, e gli studi sull’umanesimo in rapporto alla teologia o agli studi biblici o agli ordini religiosi.

[3] Quest’interpretazione dell’umanesimo veneziano è tratta dall’opera della sottoscritta Venetian Humanism in an Age of Patrician Dominance, Princeton, New Jersey 1986, come la maggior parte del materiale per questo saggio. Quel volume analizza la produzione e la carriera di un gruppo centrale di 92 umanisti attivi dal 1400 al 1490. L’indice ed i profili dovrebbero essere considerati per tutti i personaggi qui trattati (ad eccezione di quelli introdotti nell’ultima sezione, riguardanti una generazione successiva): in queste note vengono riportati solo minimi riferimenti bibliografici. Questi sono aggiornati dove possibile.

[4] Gli umanisti religiosi sono citati e classificati per classe e generazione in King, Venetian Humanism, tabelle 5-8 a pp. 284-85, 291, 298-99. Una trattazione del gruppo umanista nel suo insieme appare a pp. 205-304. I patrizi laici sono elencati, con un’analisi della loro carriera, nelle tabelle 3 e 4 (pp. 280-81), ed altri non religiosi appaiono nelle tabelle 7 e 8 sopra citate. I profili a pp. 315-449 includono tutti gli umanisti citati in ordine alfabetico, inclusi gli ecclesiastici. La cifra riportata dovrebbe riferirsi a 27 religiosi, dei quali 19 erano nobili, se viene incluso Ermolao Barbaro il Giovane. La sua carriera fu laica fino al 1491 quando, in opposizione ai desideri del Senato veneziano, fu eletto patriarca di Aquileia da papa Innocenzo VIII. Mantenne quel titolo solo poco più di un anno, fino alla morte nel luglio del 1492.

[5] Per la morte di Barbo, vedi G. Zippel, La morte di Marco Balbo cardinale, in Scritti storici in memoria di Giovanni Monticolo, a cura di C. Cipolla e altri, Venezia [1922], pp. 197, 202-203.

[6] Per la generosità del Barozzi, vedi C. Marcello, In reverendissimi episcopi Petri Barocii funus oratio, stampato con A. Valier, De cautione adhibenda in edendis libris, Padova 1719, p. 106; per la sua risposta alla minaccia di Averroè, vedi E.P. Mahoney, Philosophy and Science in Nicoletto Vernia and Agostino Nifo, in Scienza e Filosofia all’Università di Padova, a cura di A. Poppi, Padova 1983 (Contributi alla storia dell’Università di Padova, 15), p. 168 nota 85; per il suo rapporto con il vescovo esemplare vedi in particolare O. Logan, The Ideal of the Bishop and the Venetian Patriciate: c. 1430-c. 1630, «Journal of Ecclesiastical History» 29 (1978), p. 423. Per la biblioteca, vedi sotto nota 58.

[7] Per i misfatti dello Zane, vedi R. Weiss, Lorenzo Zane arcivescovo di Spalato e governatore di Cesena, «Studi romagnoli», 16 (1965), pp. 163-69.

[8] G. Mercati, Pescennio Francesco Negro Veneto, in Ultimi contributi alla storia degli umanisti, Città del Vaticano 1939 (Studi e testi, 90-91), II, p. 97. Lo studio del Mercati (II, pp. 24-109) ricostruisce accuratamente le peregrinazioni del Negri. Per il Contrario, v. R. Sabbadini, Andrea Contrario, «Nuovo Archivio Veneto», Nuova Setie, 31 (1916), parte II, pp. 378-433.

[9] La prefazione alla Vita Beati Nicolai Myrensis Episcopi, in Lorenzo Giustiniani, Opera omnia, Venezia 1751, I, p. LIII. (L’Opera omnia è disponibile in un’edizione anastatica: Firenze 1982). La Vita appare completa in Sanctorum priscorum patrum vitae, a cura di L. Lippomano, Venezia 1551, cc. 138v-149v, inclusa la prefazione alle cc. 138v-139v.

[10] Vedi le lettere del Traversari al Giustiniani, che echeggiano quelle che avrebbero dovuto essere state le affermazioni di quest’ultimo, in A. Traversari, Aliorumque ad ipsum, et ab alios de eodem Ambrosio latinae epistolae, ordinate da Pietro Canneto, a cura di Laurentius Mehus, Firenze 1759, II, coll. 307-308, 313-314, e 315-316.

[11] L. Giustiniani, Epistolae aliquot necnon aliorum ad ipsum, in G.B. Contarini, Anecdota veneta, Venezia 1757, p. 81.

[12] P. Bracciolini, Lettere, a cura di H. Harth, Firenze 1984 (Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, carteggi umanistici), vol. II, p. 93.

[13] F. Barbaro, Diatriba praeliminaris in duas partes divisa ad Francisci Barbari et aliorum ad ipsum epistolae ab anno Christi 1425 ad annum 1453, a cura di A.M. Quirini, II, Brescia 1743, pp. 138-139, 139-140. D’ora innanzi il vol. I di quest’opera (Brescia 1741) sarà citato come segue: Quirini, Diatriba; ed il vol. II: Barbaro, Epistolae. V. anche Centotrenta lettere inedite di Francesco Barbaro precedute dall’ordinamento critico cronologico dell’intero suo epistolario, a cura di R. Sabbadini, Salerno 1884, p. 50. Il prof. Claudio Griggio sta preparando un’edizione moderna delle lettere di Francesco Barbaro.

[14] Barbaro, Epistolae, App. p. 79. Per il compito che Barbaro intraprese di patrocinare l’intera città di Brescia, v. Quirini, Diatriba, pp. 321-323.

[15] C. Bollani, Libri XVIII in tria priora capita Genesi, lettera dedicatoria ad Andrea Pannonio Cartusiense, c. [o v]. La lettera è anche pubblicata in G. Degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori viniziani, II, Venezia 1754, p. 160.

[16] L. Foscarini, Epistolae, Vienna, Oesterreichische Nationalbibliothek, cod. Lat. 441, c. 207 v, 188 v rispettivamente (questa numerazione è basata su una numerazione del manoscritto cc 11-354). Per le opere vernacolari del Lapi e le loro relazioni con altre, v. le sue opere miscellanee in Biblioteca Nazionale Marciana (Marc.) cod. Lat. XIV, 295 (4348), descritte in P.O. Kristeller, Iter Italicum: a Finding List of Uncatalogued or Incompletely Catalogued Humanistic Manuscripts of the Renaissance in Italian and Other Libraries, II, Londra-Leida 1967, p. 270.

[17] Foscari, Epistolae cit. cc. 149 v, 123 v, rispettivamente; Id., Gesta martyrum Victoris et Coronae, Baltimora, Walters Art Gallery, cod. W 393 (de Ricci 472), cc. 66-67 v.

[18] N. Barbo, Oratio in laudem Francisci Contareni, cod. Marc. Lat. XIV, 257 (4050), c. 73 r-v.

[19] Ibid., c. 81 v.

[20] P. Marcello (Giovane), Oratio in adventu Cardinalis Grimani, cod. Marc. Lat. XIV, 246 (4683), specialmente c. 112 v.

[21] P. Contarini, In funere Marci Cornelii oratio, in Valier, De cautione adhibenda cit., p. 206.

[22] L. Giustiniani, Funebris oratio ad Georgium Lauredanum, in Orazioni, elogi e vite scritte da letterati veneti patrizi in lode di dogi, ed altri illustri soggeti, a cura di G.A. Molin, Venezia 1798 2, I, p. 16.

[23] B. Bembo, Gratulatio ad Christophorum Maurum pro clarissimo divini atque humani iuris scolasticorum ordine Patavini habita, a cura di N. Giannetto nel suo Un’orazione inedita di Bernardo Bembo per Cristoforo Moro, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 140 (1981-1982), Classe di scienze morali, lettere ed arti, pp. 282-83.

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