LAMENDOLA, Abbiamo bisogno di fiabe o di verità?

Articolo del prof. Francesco Lamendola, dell’agosto 2019. Queste le prime considerazioni:

Nel suo ultimo libro, Marcello Veneziani sostiene, come recita il titolo, che l’umanità odierna ha nostalgia degli dèi. La sua tesi è che, nel corso dei secoli, le divinità si sono fatte idee, principi fondamentali per la vita e per la morte, amore per ciò che è superiore, permanente e degno di venerazione; e che una società schiacciata sul presente, come l’attuale, sembra averli spazzati via. Le divinità che sono state cacciate sono, per Veneziani, dieci, o lui ne elenca dieci: la Civiltà, la Patria, la Famiglia, la Comunità, la Tradizione, il Mito, il Destino, l’Anima, Dio e il Ritorno. In realtà, cacciati dalla porta, essi rientrano dalla finestra, proprio perché gli uomini ne hanno bisogno, non possono vivere senza; ma rientrano in forme impoverite, degradate, banalizzate: diventano i miti del consumismo, della popstar, dell’automobile, del vestito firmato.

Questa tesi ha una certa apparenza di verosimiglianza, ma, considerata più da vicino, non regge. Prima di tutto, si basa su una confusione concettuale fra dèi e miti; poi, su una ulteriore confusione fra il mito come creazione umana, e cioè come fiaba, e il mito come conoscenza di una verità assoluta, che è il significato forte della parola, quello adoperato, ad esempio, da Platone. Se il mito, infatti, altro non fosse che l’espressione di un bisogno umano, non si vede perché il mito di Atlantide dovrebbe valere più del mito della motocicletta: ogni epoca ha i suoi miti, e ogni società li esprime alla sua maniera. In tal caso, non esisterebbe alcuna differenza, né alcuna gerarchia: i miti sarebbero tutti “sacri”, ma nel senso debole della parola, cioè degni di venerazione in base a dei presupposti meramente umani. Venerare gli dèi o venerare un oggetto prodotto dalla tecnologia, che differenza ci sarebbe?

Gli dèi non sono miti, parlano all’uomo per mezzo dei miti; e i miti non sono proiezioni del fantasticare umano, e sia pure di un nobile fantasticare […].

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