RUBINI, La Dolse a Venezia. I su 2


La Dolce: Calle Larga XXII Marzo, nei pressi del Ponte di San Moisè

Articolo del 29 maggio 2020 del dott. Edoardo Rubini.

Ringraziamo di cuore l’autore per l’onore che ci fa di pubblicare su questo blog il suo pregevole articolo inedito. Per dargli risalto, lo inviamo in due post.

La Dolce: Marzarieta 2 Giugno, nei pressi di Campo San Salvador

Dobbiamo al prof. Jozko Šavli, uno degli autori del famoso libro «I Veneti. Progenitori dell’uomo europeo», la scoperta dei significati di un soggetto ricorrente, fors’anche dominante, nelle armi nobiliari della Serenissima.

Lo studioso sloveno aveva intravvisto negli scudi araldici disseminati a Venezia e Capodistria una figura mitologica oggi dimenticata, legata alla mitologia delle Alpi Orientali ed emersa soprattutto in quel Granducato di Carantania, che sul piano etnico portava l’inconfondibile impronta slovena.

L’ascendenza di tale figura risaliva alla Provincia romana del Noricum, inserita nel contesto alpino-adriatico appartenente ai Veneti antichi sin dall’Età del Bronzo e del Ferro; in Età Imperiale, il Noricum manteneva ancora forti legami etno-culturali con Venetia, Histria, Raetia e Pannonia.

Nel Medioevo, il Noricum confluì nel Ducato del Sacro Romano Impero detto Carantania, che evidenziava nel nome la medesima radice linguistica di Carnia (oggi Friuli Venezia Giulia), Carniola (compresa nell’attuale Slovenia), Carinzia (eredità austriaca della Carantania, appunto).

La pantera del Granducato di Carantania

Intorno al Mille il Granducato di Carantania comprese la Marca di Verona e la Marca del Friuli: infatti, dal 952 al 1180 tale Granducato comprendeva tutto l’attuale Triveneto, ma vi era escluso il “Dogado” o “Comune delle Venezie”, come allora si chiamava la Repubblica di Venezia. Questa fascia costiera, all’incirca equivalente all’attuale Provincia di Venezia, era rimasta indipendente, non essendo mai stata invasa né da Goti, né da Longobardi, né da Franchi, mentre i Bizantini vi avevano avuto solo uno sporadico accesso nel VI secolo (anno 552), lasciando invariate le istituzioni locali.

La copertina de «Gli Sloveni. Rinascita di un Popolo d’Europa», scritto dal prof. Jozko Šavli (editore sloveno Humar)

Tale figura mitologica era nella sua essenza una pantera e campeggiava nelle armi gentilizie di buona parte delle famiglie patrizie veneziane come “la Dolce”. Si trattava, però, della medesima mitica pantera assurta a stemma, nel contempo, di Carinzia e Stiria (derivate del Ducato di Carantania); queste distinte entità feudali nel 1246 si contenettero lo stemma, sicché la Corte regia decise che anche lo stemma dovette essere diversificato, per disposizione imperiale, così adottarono smalti diversi, la Carantania mantenne la pantera nera su campo argento e la Stiria prese la pantera argentea su campo verde.

Oggi appare incredibile che questa “Dolse” (come presto fu chiamata a Venezia) si fosse diffusa come simbolo etnico condiviso tra mondo veneto e mondo sloveno, ma avvenne allora come un fatto naturale: è merito del Prof. Šavli aver spiegato nel dettaglio, attraverso le sue pubblicazioni, che durante la protostoria Veneti e Sloveni costituivano un medesimo popolo, conosciuto nell’Antichità con il nome di Veneti.  Ciò è testimoniato da un’infinità di toponimi e nomi etnici derivati da tale nome, per lo più orbitanti intorno all’Europa Centrale, nonché da tradizioni, concezioni istituzionali e giuridiche e fattori identitari comuni.

Come per il Leone di San Marco, anche nel caso della Dolce, in realtà, siamo in presenza di una figura soprannaturale, quindi mitologica, costituita da un incrocio di varie fattezze zoomorfe: come si vede bene dalle immagini qui riprodotte, la Dolce assomma caratteri che richiamano diversi animali: pantera, serpente, cane, faina; l’affascinante creatura appare sempre rampante, dotata di orecchie aguzze e a volte cornuta, con lingua fiammeggiante e coda ramificata simile ad un drago.

L’araldista Casimiro Freschot identifica, ad esempio, la Dolce come una volpe: “Dolce”era infatti il nome di una Casata aristocratica veneziana, di origine lombarda secondo alcune fonti, che portava sull’arma gentilizia, appunto, la Dolce (ne diamo le rappresentazioni di Coronelli di seguito).

Le note genealogiche che Casimiro Freschot ne «La Nobiltà Veneziana» ha dedicato alla famiglia Dolce e, sotto, lo scudo araldico in tre versioni appartenenti a rami della famiglia Dolce, dall’opera di Coronelli «Blasone Veneto»

Qualche famiglia patrizia aveva conservato con fedeltà nell’arma gentilizia la figura della Dolce: tra essi spiccano i Da Mosto e i Pisani, ma anche i Balbi, i Girardo, i Grego, i Gussoni, i Sanudo, i Trivisan, gli Zane, gli Zen.

Altre Casate, perduto il senso di tale figura mitologica, cominciarono a rappresentarla come un leone o un orso, ma vari particolari fanno ritenere che si tratti sempre della mitica pantera: è il caso dei Badoer, dei Barozzi, dei Civran, degli Emo, dei Longo, dei Loredan, dei Michiel, dei Morosini, dei Papafava, dei Piovene, dei Polani, dei Rossi, ecc.

Nel suo libro “Gli Sloveni. Rinascita di un Popolo d’Europa”, il Prof. Jozko Šavli documenta in modo irrefutabile che la pantera era apparsa come stemma nazionale nel Medioevo sugli scudi nobiliari carantani, tuttavia essi derivavano dalle originarie pantere paleocristiane riprodotte nella Cattedrale di Santa Maria di Saal, del II secolo dopo Cristo.  Maria di Saal (Gospa Sveta in Sloveno) si trova a Nord di Klagenfurt, ed è un luogo di basilare significato storico: vi si teneva, naturalmente in lingua slovena, il rito di intronizzazione del Duca sulla pietra del Principe.


Nelle pp. 58 e 59 de «Gli Sloveni. Rinascita di un Popolo d’Europa», il prof. Jozko Šavli ricostruiva l’abbondante apparato iconografico che dimostra in modo irrefutabile la derivazione della pantera carantana, riprodotta nei sigilli nobiliari medievali, dalle originarie pantere paleocristiane di Santa Maria di Saal.  Nell’ambito veneto, invece, tale simbolo si è diffuso sotto forma di figura mitologica detta «la Dolce», descritta nell’opera «Il fisiologo»

Riprendendo le dissertazioni de “Il Fisiologo”, antico testo anonimo risalente ai primi secoli della Cristianità (di recente pubblicato dalla Casa editrice Adelphi), lo studioso sloveno ha potuto svelare il mistero dell’affermazione della Dolce nell’areale alpino-adriatico agli albori del Cristianesimo. Si trattava, infatti, di reminiscenze pagane trasfuse nel Cristianesimo, reinterpretate alla luce della Fede. Vedi all’indirizzo https://www.adelphi.it/libro/9788845901768

La maggior parte degli studiosi ritiene che “Il Fisiologo” sia stato composto tra la fine del II secolo d.C. e i primi anni del III, presumibilmente ad Alessandria d’Egitto, cioè in un’area culturale nella quale si rielaboravano culti e misteri mediterranei nelle concezioni della Chiesa Copta.

In quel tempo la parola physiologia stava ad indicare il modo in cui ci si avvicinava alla natura interpretandola come specchio della verità. Lo scopo era quello di vivere la Fede cogliendo il messaggio portato dalle creature divine. Nel trattare degli animali, più che la realtà naturalistica, si ricercavano le allegorie, cioè i significati simbolici desumibili dai loro comportamenti.

Il Fisiologo descrive la pantera come amica di tutti gli animali. Dopo essersi saziata, essa riposa per tre giorni nella sua tana per tre giorni e tre notti; quando finalmente si alza, lancia un grande ruggito che è sentito da tutti gli animali, che se ne rallegrano. Solo il drago si spaventa e si rifugia nella sua grotta. Con l’urlo, la pantera emana il profumo di aromi dolcissimi (da qui il suo nome) che si diffonde nell’aria, inducendo gli animali a seguirla. La trasfigurazione è di significato religioso: la pantera è la Resurrezione di Cristo, il profumo è la Lieta Novella, che attrae l’umanità intera, il drago in fuga è invece Satana.

Da notare che anche Sant’Agostino aveva paragonato il Leone alla Resurrezione di Cristo. Nel discorso 375/A “Umiltà e forza di Cristo” troviamo questa luminosa interpretazione: «E vediamo il leone nella risurrezione. La stessa Apocalisse che ho citato prima dice: Ha vinto il leone della tribù di Giuda… nell’aprire il libro. Perché agnello nella passione? Perché accettò la morte senza avversarla. Perché leone nella passione? Perché, una volta ucciso, uccise la morte».

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