SARTORI, Importanza dei «Discorsi sulla storia veneta» del N.H. D. Tiepolo

Di Giuseppe Bernardino Bison, Il ponte di Rialto visto da nord, con il palazzo dei Camerlenghi

Di Umberto Sartori

Da: http://www.veneziadoc.net/Storia-di-Venezia/Venezia-Domenico-Tiepolo.php

Non ho davvero parole sufficienti a lodare il lavoro di Domenico Tiepolo, al quale penso si debba memoria degna d’un salvatore della patria.

Egli non ha forse combattuto in armi, ma ha creato gli strumenti concettuali per abbattere i fantasmi di una mente malata e malevola verso la Repubblica, fantasmi così potenti da avere infestato l’immaginazione del mondo, con la loro menzogna, ma che nulla possono a cospetto dell’esorcismo formulato dal Tiepolo nella verità. Tali strumenti, purtroppo, sono rimasti sepolti a lungo, sono deliberatamente trascurati ancora oggi dalla storiografia ufficiale e sono completamente ignorati dalla stessa maggioranza dei patrioti veneti. Sono strumenti impugnati solo sporadicamente, per lo più da storiografi di lingua anglosassone e con particolare efficacia dal reverendo cattolico americano Reuben Parsons.

È stato solo grazie al Parsons che io stesso son potuto venire a conoscenza dell’opera di Tiepolo. Giustizia e logica avrebbero voluto che, nato e vissuto in Venezia, fossi stato messo al corrente di una così grave falsificazione alla storia patria fin dalla prima istruzione. Invece, come tanti altri anche ben più giovani di me, sono stato istruito precisamente nella torbida atmosfera instaurata sulla nostra città dal malevolo Daru.

A distanza di quasi due secoli, il complotto cui il Tiepolo ha evitato di accennare si è manifestato, infatti, in tutta la sua evidenza. Con l’Histoire de la Republique de Venise, del Daru, siamo di fronte al più lampante esempio di storia riscritta dai vincitori. L’Autore, come accennato, è stato addirittura il capo commissario dell’Armata napoleonica del Nord-Italia e tra i firmatari dell’armistizio con l’Austria.

Le citazioni del Daru, esaminando le fonti originali, rivelano oltre novecento pagine di falsificazioni, avulsioni dal significato nel contesto, traduzioni infedeli e altre disonestà intellettuali che fanno dell’intera Histoire il prodotto di una mente demagogicamente orientata a calunniare la memoria di quella Repubblica che il Daru stesso, dieci anni prima, aveva saccheggiato e privato della libertà.

Per mezzo di questi artifizi, che la storia non può condonare, il Daru pose un falso avallo affinché Venezia fosse privata non solo della libertà ma finanche del diritto alla propria identità nazionale, territoriale e amministrativa, come vedremo avvenire con la Restaurazione.

Il Daru, con le sue falsità, era riuscito a proiettare sulla Serenissima Repubblica di Venezia, in forma quanto possibile peggiorata, sia tutti gli orrori generati dall’Illuminismo, sia tutte le malvagità proprie dell’indole infantile e capricciosa dei monarchi, Francesi e non solo, dei secoli precedenti. I Borboni restauratori infatti non mancarono di riconoscere al Daru, napoleonico non pentito, il titolo di pari nel loro restaurato regno.

Ho accennato a come il Tiepolo si astenga da ogni valutazione o attribuzione di intenti all’Autore. Ciascuna osservazione di incongruenza è sempre attribuita alla mala disposizione di chi lo ha servito nelle ricerche bibliografiche e non del Daru stesso. Questo atteggiamento è ribadito anche nella nota di chiusura dell’opera, che vedremo tra breve.

È somma preoccupazione del Tiepolo spogliare di ogni aspetto personale la disamina dei fatti. L’attenzione del critico si limita persino esclusivamente alle fonti stesse citate dal Daru, per non dover espandere alla discussione sull’accreditamento di ulteriori fonti un discorso già complesso.

Il lavoro svolto con tale rigore storiografico dal Tiepolo lascia me libero, duecento anni dopo, di assumere ben altro tono nei confronti del Daru e delle conseguenze delle sue falsità, che saranno trattate anche in altri articoli in VeneziaDoc.net. Mi lascia libero di mettere ulteriormente a fuoco la figura dell’Autore della Histoire de la Republique de Venise.

La patente di intellettuale mette il Daru in qualche modo al riparo dalla caduta di Napoleone, nonostante fosse stato intimo collaboratore del Bonaparte sin dalla prima ora. Egli, è detto nella biografia, si «ritirò a vita privata e di studio», mentre il suo diretto comandante, terrore dell’Europa monarchica, si sciroppava l’esilio dell’Elba.

Approfittando del curioso privilegio di libertà concessogli dal restaurato Luigi XVIII in pieno Congresso di Vienna, vediamo il Daru pronto a riunirsi al suo idolo quando questi tenta il ritorno dei Cento Giorni. Sopravvive tuttavia anche alla definitiva rovina del Bonaparte e viene destinato dai Borboni, anziché a Sant’Elena, a divenire membro della Camera dei Pari. Sembra uno strano riconoscimento per un collaboratore tanto intimo ed efficace del Terrore d’Europa. Per il fautore, tra l’altro, di alcune delle più brillanti azioni militari del caporale Imperatore, suo principale rappresentante diplomatico nei più importanti trattati internazionali. Tuttavia, il fenomeno di galleggiamento del Daru, sulle tempestose acque di Francia, non ci stupirà se prendiamo atto dell’immagine dei governi francesi che emerge dalle relazioni della Repubblica di Venezia e dai maggiori storici. La monarchia Francese è, essa sì, universalmente e fondatamente nota per la sua vocazione all’intrigo, per la volubilità e capricciosità e talvolta la ferocia di alcuni suoi monarchi. Monarchia quasi sempre ferocemente e subdolamente ostile al cristianesimo militante dei Templari prima e dei Veneziani poi. Tale atmosfera morale nella Corte di Francia pare quindi riconoscere al Daru un ruolo al di sopra delle pur feroci fazioni, di uomo utile alla Nazione nel suo complesso, come capo militare e orditore di intrighi. Una figura forse analoga a quella moderna del consulente militare, ideologico e scientifico al tempo stesso.

Manca al Daru l’etica necessaria allo storico, ma egli è stato un brillante capo militare e con l’etica di un militare barbaro viene lanciato sulla storia di Venezia. Come aveva saccheggiato in armi, così pretende di saccheggiare in ispirito. Crede di pagare i privilegi ottenuti indistintamente da dittatori, monarchi e accademici con gli immensi tesori spirituali che la sua opera di falsificazione ruba alla Repubblica di Venezia.

Primati come l’abolizione della schiavitù, l’organizzazione del commercio mondiale, le leggi di tutela dei minori sul lavoro, la sanità pubblica, l’importanza della borghesia come classe politica, furono trasferiti alla Francia, con il preciso scopo di coronare la carneficina rivoluzionaria, il Terrore e Napoleone, come apportatori di grandi conquiste civili. A lenire il disgusto della carneficina si pose l’aver questa finalmente portato al potere la borghesia; il Terrore fu fatto apparire un breve malessere passeggero a confronto dei quattrocento anni del terrore di Venezia sotto il Consiglio dei «terribili Dieci».

Chi fece il male peggiore, raccogliendo al contempo la maggior parte del bottino intellettuale, fu il movimento illuminista transnazionale, che ereditò in blocco quello che era stato il patrimonio culturale e tecnico dei Veneziani, ne usurpò l’Autorità morale e scientifica e di questa Autorità fece assai cattivo uso, soprattutto nelle opere di divulgazione e in quelle di istruzione popolare.

Detenendo pressoché il monopolio della cultura enciclopedica e divulgativa, oltre a una cospicua influenza su gran parte degli Ordini Sapienziali laici, l’Illuminismo perpetrò le calunnie del Daru e, grazie a queste, poté vestire indegnamente i meriti di Venezia, cambiando il proprio stato filosofico da «mediocre rilettura laica del cristianesimo» a «grande innovazione globale del pensiero, del metodo e della società». Un bel salto di carriera, non c’è che dire, ma dalle conseguenze nefaste per l’umanità.

La Restaurazione venne per tutti ma non per Venezia. I suoi primati civili furono spartiti al pari dei suoi territori e opere d’arte; il suo limpido ed efficiente modello di Stato fu caotizzato e calunniato. Proprio grazie alla teoria fosca e fasulla del Daru, tali impossessamenti e confusioni sono ancora oggi largamente tacitati nella storiografia ufficiale e ancor più largamente falsificati nella letteratura e nell’immaginario popolare.

La teoria calunniosa francese sarà continuata dai dominatori austro-ungarici e implementata dal regno d’Italia, poi sarà adottata dal ventennio fascista, e ancora la pseudo-repubblica attuale non manca di rinnovare la demagogia anti-veneziana, passando dai librettisti dell’Ottocento ai registi e scribacchini del Novecento e del Duemila.

I «Discorsi sulla storia veneta» sono un vero capolavoro di critica storiografica, centrato su uno degli Stati che per oltre dieci secoli troviamo fra i protagonisti più importanti d’Europa e del mondo.

Essi contengono rettifiche storiografiche di tale importanza da rendere quest’opera necessaria a ripristinare l’accertato storico non solo della Repubblica di Venezia ma della storia mondiale nell’arco di 14 secoli.

Tale opera è stata tuttavia lasciata negletta, tra le pubblicazioni minori e d’archivio, mentre alle Enciclopedie e alla letteratura popolare si continua a dare in pasto la fiaba malevola del Daru.

Frontespizio della prima edizione del dramma storico «Angelo, tiranno di Padova» di Victor Hugo, in vendita al popolare prezzo di 50 centesimi. Victor Hugo fu tra i primi a trasformare le calunnie del Daru in suggestioni popolari per mezzo dei teatri (image courtesy of Tertulia Bibliofila).

Ancor oggi, nel 2011, le guide di Piazza raccontano ai turisti gli «orrori del Consiglio dei Dieci», inventati dal Daru e portati a perfezione favolistica dai suoi successori, nello sfruttamento della torbida atmosfera letteraria che scaturisce dalla calunnia: Victor Hugo (1835), Francesco Dall’Ongaro (1846), Arrigo Boito (1876) e altri, che con le loro operette di successo svolgevano funzione molto simile alla televisione e al cinema di oggi, quanto alla trasmissione di contenuti al popolo.

Oltre a quello già citato del rev. Parsons, ho trovato accenni ai «Discorsi sulla storia veneta» solo nei trafiletti che qui riprodotti.

Citazione del Tiepolo nel «Museum of foreign Literature and Science», New York 1829 (courtesy of GoogleBooks)

Vediamo come il redattore del «Museum of foreign Literature and Science di New York», nel 1829, si dica edotto sulla Storia di Venezia dal lavoro del Daru e attenda con una certa ansia le confutazioni del Tiepolo.

Citazione falsificata del Tiepolo negli «Annali universali di Statistica, economia pubblica, storia, viaggi e commercio», Milano 1829 (courtesy of GoogleBooks).

Vediamo anche un trafiletto negli «Annali universali di Statistica, economia pubblica, storia, viaggi e commercio» pubblicati a Milano nel 1829, che intende annichilire il testo del Tiepolo con una stroncatura.

Una piccola frase: «Diremo qui infine cosa spiacevole ma necessaria a ridirsi: che una storia vera di Venezia ancora manca: e innumerabili sarebbero le difficoltà a ben riuscirvi». Piccola frase ma sufficiente a istillare l’idea che la lettura delle novecento pagine del Tiepolo sia attività di nessuna importanza, da lasciarsi a eruditi topi d’archivio per il loro piacere intellettuale, senza speranza di giungere a un’immagine chiara e definitiva della storia di Venezia.

La vigliaccheria di questa frase definitiva, pronunciata non da un archivista o da uno storico, ma da un semplice giornalista di varietà, è raddoppiata dal fatto che il redattore la scrive in modo tale che sembri attribuibile al Tiepolo stesso. Tiepolo è invece uno storico perfettamente avveduto della grande e organica qualità di documenti tramandati alla storia dalla Repubblica Serenissima, come dimostra la vera frase con cui conclude la sua Opera:

«Ci crediamo quindi in dovere nel chiudere queste nostre osservazioni, di ripetere la solenne protesta, che […] siamo stati nostro malgrado tratti a fare […] sui passi ne’ quali ci siamo accorti che non era egli stato ben informato delle venete cose; oltreché da una specie di dovere […] di non lasciare ingannare i forastieri da inesatte nozioni della forma, e sistemi del governo Veneto, […] non ci ha permesso di lasciar luogo a sospettare dal nostro silenzio che neppur noi conoscessimo bene il governo nostro. Sarebbe questa una taccia ignominiosa per un Veneziano che ha avuto parte nel governo, e questi riflessi speriamo che saranno valevoli a giustificarci anche verso il sig. Daru se, con nostro dispiacere, vedendo da lui non approvate le nostre osservazioni, ci siamo creduti in dovere di assoggettarle al giudizio del pubblico».

Il Gondoliere del 24 dicembre 1836 (courtesy of GoogleBooks).

Ancor maggiore infamia merita il terzo trafiletto, tratto da «Il Gondoliere» del 1836. È un giornale filo-francese, fondato da un tardo bonapartista, Paolo Lampato, con capitali messi a disposizione dalla potente famiglia Papadopoli, anch’essa nota, dalle relazioni di polizia austro-ungarica, come «di censurabili principi politici».

Un altro patrizio veneto, Paolo Renier, aveva scritto una tragedia che si prefiggeva di ripristinare presso il grande pubblico la verità storica sulla vicenda del «Conte di Carmagnola», vicenda che la fantasia del giovane Alessandro Manzoni già nel 1816 aveva usato per mettere la Repubblica di Venezia proprio in quella luce fosca che il Daru andava pubblicando come storia.

Si penserebbe che Paolo Renier trovasse supporto, alla sua tragedia rettificatrice, da un giornale veneziano come «Il Gondoliere». Invece, come vediamo, viene pugnalato da una stroncatura tanto feroce, quanto mistificatoria e probabilmente priva di ogni fondamento critico. La malafede del redattore, tale Luigi Carrer, appare evidente quando invita il Renier a produrre storiografia anziché teatro. Lo esorta quindi a duplicare il lavoro già svolto egregiamente dal Tiepolo e rimasto sepolto negli archivi.

Che il redattore non ignori l’esistenza dei «Discorsi sulla storia veneta» è dimostrato dal fatto che, in calce all’articolo, riporta proprio il necrologio del Tiepolo stesso, dove lo definisce autore di alcune note (le novecento pagine dei «Discorsi sulla storia veneta») ad una storia famosa che fornì materia di gravi pensamenti a chi ne abbia l’attitudine e il desiderio».

Evidentemente, il redattore non era tra quelli che coltivassero il desiderio di amare la propria patria e la propria storia, perché il giudizio ex cathedra che pronuncia sul concittadino è senza appello: il Renier – secondo lui – è un vanitoso, che vuole mettersi in mostra, duellando con un avversario ben più dotato di lui. Sull’argomento degli avversari del Renier e su alcune vicende del Carrer e del suo «Gondoliere» vedremo meglio nell’articolo che dedicherò alla storia della calunnia contro Venezia.

Venezia, vecchia cartolina della fondamenta Ognissanti.

Concludendo la presentazione dei «Discorsi sulla storia veneta», torno alla promessa riflessione sul tono letterario in cui il Tiepolo conduce le rettificazioni.

Lo abbiamo visto ripetersi, a ogni contestazione o confutazione, in attestazioni di stima al Daru, alla cui preclara fama di studioso solo fanno disonore collaboratori incapaci o infedeli.

Se davvero il Tiepolo così avesse pensato, avrebbe potuto sintetizzare il concetto in un proemio all’opera e proseguire poi con il lavoro di confronto compilativo, escludendo l’Autore da ogni ulteriore successiva menzione. Invece fa dell’infedeltà dei collaboratori del Daru un ritornello che giocoforza si traduce in una sorta di ironia arlecchinesca.

Egli sembra quasi un pugile che saltella attorno a un avversario di cui conosce tutti i punti deboli e che, mentre lo colpisce, si diverte a schernirlo dall’alto della maestria veneziana nella storia e nell’arte diplomatica.

L’insistere in questa ironia rende poco attendibile l’ipotesi di un Tiepolo pavido uomo d’archivio, timoroso di entrare in aperto conflitto con un uomo potente sia nel campo delle lettere che in quelli militare e politico. Se all’origine del tono sottomesso vi fosse stata semplice viltà umana, meglio avrebbe fatto il Tiepolo a non pubblicare la sua opera, perché nel 1828 Venezia era sì sotto l’Austria ma in anni molto recenti il potere era passato dai Francesi agli Austriaci, poi ancora ai Francesi e infine tornato agli Austriaci. Non era affatto improbabile che, per ulteriori intrallazzi dei restauratori, il Daru potesse tornare a Venezia con ogni pieno potere di saccheggiatore. E, in tal caso, la diplomazia ironica non sarebbe bastata a salvare il Tiepolo dalla sua vendetta. Penso che il Tiepolo, nel ricorrere a quello stile, fosse a sua volta prigioniero di un’arte diplomatica che era divenuta preoccupazione costante della politica veneziana, dalla vittoria di Cambrai fino ai giorni del suo ultimo governo. Egli usa forse l’ironia verso il Daru perché la ritiene il modo più efficace di esporre presso gli intellettuali e perché valuta accuratamente la personalità del francese. Basta infatti guardare il suo ritratto per capire che la vanità ha un posto importante nella vita del conte repubblicano Daru. Tiepolo, da fine diplomatico veneziano, sa che simili anime sono attratte a leggere dal succedersi degli elogi loro riferiti, anche contro la ragione che vi intuisce l’ironia. Tiepolo vuole che il Daru lo legga perché, certo, non spera giustizia immediata per la sua patria, ma non vuole lasciare al predatore l’illusione di averla fatta franca.

Con tutta la mia gratitudine per un’opera davvero preziosa, capace da sola, non fosse suffragata da varie altre, di sbugiardare punto per punto e documenti alla mano l’intero intreccio di calunnia costruito dal Daru, non posso far a meno di rilevare nell’accademismo snob del Tiepolo chiara traccia degli errori morali e strategici che la Repubblica aveva cominciato a commettere almeno dal tempo di Cambrai. Da Cambrai in poi, infatti, la Repubblica aveva cambiato modo di proporsi sul piano internazionale, sostituendo sempre più all’ardore di giustizia e verità cristiane, che avevano fatto grande il nome e i possedimenti dei Veneziani, le arti dell’astuzia diplomatica e commerciale. Questo è un argomento che ho enunciato abbastanza precisamente in Storia Morale di Venezia e che trova riscontri storiografici importanti nella «Storia d’Italia» del Guicciardini. Di questi riscontri è in corso la pubblicazione in veneziaDoc.net.

Solo l’essersi la tarda Repubblica piegata, con notevole apparente successo, a pagare la tranquillità dei propri territori servendosi più delle arti segrete e sottili della diplomazia che dell’esplicito coraggio, permise le aree di incertezza morale e storica nelle quali il Daru fece radicare le proprie calunnie.

Il Tiepolo riveste e acconcia secondo verità il cadavere di Venezia con il distacco professionale di un consumato ambasciatore, ma il degno funerale ebbe scarsa risonanza, mentre la libellosità del Daru rimase e purtroppo ancora in parte rimane fonte primaria per quella storia internazionale cui si abbeverano tragedie, operette e melodrammi che nei teatri, nei cinema e nelle trasmissioni radiofoniche e televisive suggestionano l’immaginario popolare.

Queste sono solo alcune delle lugubri immagini di cui ancora si veste Venezia grazie al meschino inganno di un commediografo ottocentesco.

Tra gli infausti emuli dello Hugo nel propalare le calunnie del Daru, infatti, il maggior successo spetta senza dubbio a Francesco Dall’Ongaro. Dal 1846, con la sua invenzione del «Povero Fornareto di Venezia, condannato ingiustamente dal Consiglio dei Dieci», spacciata per «importante dramma storico», ha dato luogo a una inesauribile serie di edizioni e rifacimenti in tutte le branche della comunicazione mediatica, dal teatro alla narrativa, dall’aneddotica al cinema, dalla televisione ai fumetti e alla musica.

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