BELLI, 2009, Lo scienziato e scrittore Renato Pampanini

Fotografia inviata al prof. Saccardo, fronte e retro

Articolo del dott. Mario Ferruccio Belli, tratto dal numero di maggio 2009 del mensile «Il Cadore» e divulgato al link: http://www.archiviodigitalecadorino.org/asc0001/Pampanini.html, che riassume l’articolo così: «Personaggio di spicco nel mondo culturale italiano, Renato Pampanini di famiglia sanvitese fu scrittore e docente di botanica. Non poté finire un’opera monumentale sulla flora del Cadore».

La famiglia di Renato Pampanini de la Varda era fra le più ricche di San Vito [di Cadore]. Durante la rivolta antiaustriaca del 1848, lo zio Antonio, sacerdote, aveva combattuto al comando del 1° Corpo franco, sotto la direzione di Pier Fortunato Calvi, sul confine con Ampezzo, alla Chiusa di Venas e, in seguito, alla difesa di Venezia. Anche per togliersi da tanta esposizione politica i suoi genitori, Giovanni Battista e Maria Arrigoni, erano allora emigrati a Cozzuolo di Vittorio Veneto. 

Ma pure don Antonio, dopo la capitolazione di Venezia (1849), aveva scelto di non fare ritorno alla casa avita di Chiapuzza e, invece, venirsene al sicuro nella campagna delle Basse.

Là Renato nacque nel 1875. La natura rigogliosa, la casa immersa nel verde e la conoscenza del botanico vittoriose Pier Antonio Saccardo, amico di famiglia, segnarono il suo destino. [1] Ancora quand’era alle scuole popolari, incominciò a raccogliere erbe e piante, fra cui quelle acquatiche che scopriva nei laghetti di Revine, descrivendo quelle più rare con rigore sistematico.

Mentre frequentava il ginnasio vescovile di Ceneda, fu colpito da una grave malattia (tbc?) e la famiglia pensò di mandarlo a guarire in Svizzera. Questo fu il motivo per cui proseguì colà gli studi, diplomandosi a Friburgo. Iscrittosi, poi, alla facoltà di Scienze naturali dell’università di Losanna, si laureò nel 1902 con la tesi «Geografia botanica delle Alpi», che gli fruttò la medaglia d’oro della Societé de Géographie de Géneve.

L’anno dopo, ritornava in Italia, assunto come ricercatore dall’Istituto Botanico di Firenze. Da quel momento la sua carriera proseguì, come insegnante, senza arresti. Nel 1905 era aiuto nella cattedra di Botanica; nel 1912, ottenuta la libera docenza, ne diventava direttore. Frattanto, aveva sposato la sua allieva Elena Duse, di origine veneziana, che le fotografie dicono avvenente. Ma anche il professore Pampanini era un bell’uomo: alto di statura, la figura sottile, la fronte spaziosa, gli occhi grandi e due baffoni sbarazzini, come si usava allora.

In più brillava come personaggio di spicco nel mondo culturale italiano, avendo già pubblicato centinaia di pubblicazioni sulle riviste scientifiche nazionali e internazionali. Addirittura, ad appena 13 anni (!) aveva visto comparire un suo articolo sul «Nuovo Giornale Botanico Italiano», vol. XX, 1888. Aggiungeremo che il primo, in lingua francese, lo pubblicò nel 1902 sul «Globe journal géografique», con il dotto titolo che ci piace riportare letteralmente: «Sur la distribution des plantes des Alpes austro-orientales et plus particulièrment d’un choix des Alpes cadoriques et venetiennes». Il primo articolo in lingua tedesca apparve nel 1912 su una rivista scientifica berlinese.

Frattanto, era stato nominato segretario della Società botanica italiana, carica che mantenne fino al 1929.

Quando, nel 1915, scoppiò la guerra, la famiglia viveva serenamente a Firenze. La signora Elena, che gli aveva appena dato una figlia, insisteva perché rimanesse a casa, come avrebbe potuto facendo valere l’età, 40 anni, l’essere figlio unico e gli incarichi scientifici. Invece il ricordo dello zio Antonio che, mezzo secolo prima, s’era battuto contro gli Austriaci, lo convinse ad arruolarsi. Seguì i corsi di allievo ufficiale, fu nominato sottotenente e partecipò a tutto il conflitto, spesso in prima linea, raggiungendo al momento del congedo il grado di capitano. Alla fine del 1918 venne mandato in missione militare nelle Isole Egee che la vittoria aveva, provvisoriamente, assegnato all’Italia. Non gli parve vero cogliere l’occasione per esplorare sistematicamente l’isola di Rodi, dandone un approfondito ed esauriente resoconto sulla rivista «L’Universo». Per dire della qualità di scienziato!

Congedato, e ripreso gli abiti borghesi, tornò a Firenze, dove riassunse la cattedra universitaria. Per quasi cinque anni aveva percorso il fronte di guerra, da un punto all’altro, durante tutte le stagioni, scoprendo curiosità botaniche che, spesso, aveva trasformato in articoli. Come quello pubblicato sul mensile «In Alto» della Società Alpina Friulana, intitolato: «Lo stambecco», descrivendo la biologia e l’etologia di un animale, allora abbastanza raro, che aveva incontrato su quelle montagne.

L’aver rivisitato le Dolomiti, seppure sotto la veste corrusca della guerra, gli aveva acceso nuove luci sulla gloriosa repubblica del Cadore, dove erano vissuti i suoi antenati. Era rimasto colpito soprattutto delle sue antiche autonomie, che aveva identificato simbolicamente nel tiglio, [2] e non poteva essere diversamente, vista la formazione culturale, tanto che scrisse un articolo per «La Domenica del Corriere» di Milano, anno 1915, col titolo: «L’albero della libertà», uno dei primi saggi di carattere storico locale.

L’argomento lo aveva successivamente ripreso, in occasione di un soggiorno di studio a San Marino, raffrontando quel piccolo Stato indipendente, sui monti del centro Italia, con la comunità cadorina, scrivendo: «Alberi della libertà ed alberi della pace» sulla rivista: «Museum – Repubblica San Marino, 1918».

In quegli anni, soprattutto, aveva riscoperto il paese dov’era nato suo padre. Di San Vito aveva esplorato avidamente i ricchi archivi comunali, trovando spunti per due corrispondenze sulla rivista «Universo»: in aprile «La frana del monte Antelao, secondo le memorie inedite del notaio G. Belli di Serdes» [3] e in maggio «La ricomparsa del cervo in Cadore». [4] Aveva riabbracciato i parenti sanvitesi, orgogliosi, a buon diritto, di quel figlio illustre, anche se nato altrove. La casa paterna di Chiapuzza, in fondo al paese, verso Cortina, non era più quella interamente di legno, di cui gli avevano raccontato i genitori, che era stata vittima di un incendio e ricostruita. La gran parte delle memorie erano andate perdute, ma non tutte. Colse dunque l’occasione per raccogliere il poco materiale rimasto e scrisse la storia della famiglia Pampanini. Quindi, sempre attingendo dagli archivi locali, compilò «Le ripercussioni della campagna d’Italia del 1809 a San Vito del Cadore, dal diario inedito del notaio Belli», pubblicato a Firenze nel 1926. Nell’ambito familiare esisteva ancora il ricordo di un crocifisso in legno che non ebbe difficoltà ad attribuire al celebre scultore bellunese Brustolon che, due secoli prima, di passaggio da Ampezzo, era stato ospite dei suoi antenati. Ne trasse una monografia stampata a Forlì: «Le vicende del Crocefisso scolpito da A. Brustolon per la famiglia Pampanini di Chiapuzza».

Tutto questo senza trascurare la vita accademica e di scienziato. Nel 1928 venne chiamato come consigliere ed insegnante dell’Istituto Agricolo Coloniale; nel 1930 venne nominato membro del Congresso Internazionale di Botanica, di Cambridge, e, nel 1935, di quello di Amsterdam.

Ma nella sua vita era avvenuto un fatto strano. Per ragioni non note, gli arrivò improvviso il trasferimento da Firenze alla Sardegna, con la nomina a direttore e docente di Botanica all’Università di Cagliari, e [senza chiarire] nemmeno se fosse una promozione oppure questione politica.

Da allora la sua vita professionale se, da un lato, era complicata dai problemi logistici, dall’altro si fece straordinariamente più intensa di sempre, con la pubblicazione di lavori su ogni genere di fiori o piante, e sulle più famose riviste scientifiche italiane e straniere; senza dire delle numerose biografie di insigni botanici dei tempi passati. Amava anzitutto scrivere con speciale attrazione per i luoghi della sua gioventù. Compilò il «Catalogo alfabetico di piante selvatiche e coltivate di Vittorio Veneto», purtroppo rimasto manoscritto nella biblioteca del seminario di quella città, come ricorda Mario Ulliana nel libro «Vecchio tinello». La versatilità, e la freschezza della mente, lo portarono alle apprezzate collaborazioni, ricche di annotazioni e bibliografia, sull’«Archivio storico di Belluno, Feltre e Cadore», dove pubblicò, fra l’altro, «L’elmo gallico di Domegge», «Il 1848 in Cadore» e «Frane dell’Antelao», «La resistenza ai francesi nel 1809», «Il soggiorno di Brustolon a San Vito».

Purtroppo, la morte improvvisa, avvenuta a Torino nel 1949, non gli consentì di finire l’opera monumentale dedicata alla flora del Cadore. La notizia della sua morte venne data da «L’Amico del Popolo» di Belluno con una succinta biografia. Nel 1959 il comune di San Vito gli dedicò le scuole elementari e quello di Vittorio Veneto una via, nei pressi dell’uscita sud dell’autostrada.

L’anno prima i suoi allievi F. Negri e P. Zangheri, avevano pubblicato in un volume di oltre novecento pagine, intitolato «La flora vascolare del Cadore», a cura della Magnifica Comunità, il suo ultimo lavoro. Ma il ricordo imperituro resta nelle università di Firenze e Cagliari, dove generazioni di giovani si sono formati alla scuola e, tuttora, studiano sui testi di questo scienziato che onora il Cadore.

NOTE


[1] Nota redazionale, nostra: A lui il venticinquenne Renato Pampanini inviò la fotografia conservata presso la Biblioteca dell’Orto botanico, dell’Università di Padova, distribuita in internet al link: https://phaidra.cab.unipd.it/detail/o:2463. Essa, riprodotta qui sopra, reca questa descrizione: «Pampanini, Renato (1875-1949). Laureando in scienze naturali, raccoglitore e conoscitore della flora trevigiana e bellunese, di cui conserva un buon erbario. Titolo manoscritto sul recto, dove compare anche la nota: Al Prof. P. A. Saccardo, Renato Pampanini, 23/XII/1900. Montata su cartoncino 102 x 63 mm. 1 fotografia : aristotipo? ; 90 x 61 mm […]».

[2] Nota redazionale, nostra: Per noi del Baliato era il frassino, come scritto già varie volte. La riunione della piccola Comunità dei due masi, poi villaggi, di Coi (propriamente detto, cioè del Casale De Pellegrin) e di Col, avveniva come riunione dei capofamiglia ai piedi di un frassino nei pressi del cimitero e della cappella gentilizia, poi (nel 1500) unificati nel fabbricato della nuova chiesa di San Pellegrino. Tutti stavano in piedi, a sedersi era, se mai, il solo scrivano verbalizzatore, sempre ammettendo che scrivesse lì per lì e non in un secondo momento, a casa sua, soprattutto nel caso fosse stato un notaio, appositamente chiamato alla riunione, come fu nel caso della costituzione della vizza de L’Arzonè.

[3] Nota redazionale, nostra: Ne abbiamo una copia, in estratto di pp. 10. Il titolo esatto è: «La frana del monte Antelao (21 aprile 1814) secondo le Memorie inedite del notaio G. Belli (1769-1850) di Serdes», 1924.

[4] Nota redazionale, nostra: Questo studio ci sarebbe utile, visto che la campanella del Baliato, cinquecentesca, reca una duplice immagine di caccia al cervo, come scritto in precedenti post.

***