DON FLORIANO, Lettera ai sacerdoti della Chiesa cattolica, I su 3

Di don Floriano Pellegrini, del 4 febbraio 2011

Cari amici Sacerdoti,

il cuore e la consapevolezza dei miei doveri m’hanno spinto a scrivervi questa piccola lettera. Ne sono risultati nove punti: 1) Mi presento; 2) L’esperienza di mandriano; 3) Differenza tra pastore e mandriano; 4) «Mi ami tu più di costoro? »; 5) «Sono forse il custode di mio fratello? »; 6) Il bastone pastorale e la voce; 7) Il vincastro; 8) Diocesi e parrocchie (pievi); 9) «Vi farò pescatori di uomini».

1. Mi presento

Sono nato nel 1956 in un paesino delle Dolomiti, a ben 1500 metri di altitudine. Faccio parte di una famiglia numerosa, di tre fratelli e due sorelle, che molti apprezzano per lo spirito di unità, spirito ch’è il più bel dono che ci hanno tramandato papà Nicolò e mamma Antonia. Siamo liberi agricoltori di un antico maso, che la famiglia possiede dalla metà del Trecento.

Ho qualche dote: una forte intuizione, una ferrea volontà, una grande capacità di fare amicizia. Ho qualche limite: un’intelligenza buona ma non eccellente, una memoria mediocre, una santità alterna (se si può dir così). Ho qualche difetto: una salute cagionevole e la propensione a credere leali, come me, quelli che leali non sono.
Sono sacerdote dal 1984.

Qualche superiore gerarchico, qualche confratello e i laici in genere mi amano; qualche altro non mi sopporta; difficilmente riescono ad essere indifferenti, con me, perché sono molto esigente con me stesso e perciò, indirettamente e involontariamente, anche con loro. So dire «sì» e dire «no»; dire: «Questo è giusto», ma anche: «Questo è sbagliato». Posso sbagliare anch’io e qualche volta sbaglio; ciò non toglie che non mi senta autorizzato a sminuire l’amore per la verità, il quale è una delle cose che più mi stanno a cuore, e non sopporti di vederlo mancare. Con tutto ciò, non impongo né la mia opinione, né la mia presenza; so starmene a lungo in disparte, apparentemente nella solitudine; e so rivolgermi a chicchessia in libertà. Ritengo che la verità sia il più solido fondamento di ogni comunione e constato, a volte, che chi ieri mi odiava per non avergli taciuto un «no», oggi mi è grato di averglielo detto. Certo, l’amore è questione di sì, la vita stessa è un sì; ma la capacità di dire «sì»
comporta intrinsecamente quella di dire dei «no»; altrimenti non esisterebbero neppure i «sì», ma l’accettazione passiva della realtà quale, buona o cattiva che fosse, si presenta a noi. Eppure nella realtà ci sono anche divisioni, inganni, menzogne, violenze, ingiustizie, peccati, e io devo pronunciare anche queste parole, evidenziare anche queste realtà, non meno di come pronunci e proponga le altre parole e realtà, positive, di unità, lealtà, verità, rispetto, giustizia, santità.

Soprattutto, oggi come oggi, devo pronunciare e aiutare a far scaturire dall’intimo del cuore la parola Dio. E, per fare ciò, al di là di ogni fasulla e presunta religiosità naturale, devo lavorare perché le persone incontrino, come io incontro, il Cristo, ne ascoltino la parola, ne gustino la presenza di risorto, l’accolgano in sé ed essi entrino in comunione con lui nell’Eucaristia; si aprano fattivamente al suo mistero, alla sua gloria, alla sua grazia, camminino sui suoi passi, festeggino le sue vittorie, soffrano delle sue croci e, insieme, giungiamo a formare quel suo corpo nel tempo e nello spazio, pellegrino verso l’eternità e la non-spazialità, che è la Chiesa. Sono queste le tre parole di fondo che ho la gioia, la fortuna e la responsabilità di pronunciare e proporre: Dio, Cristo, la Chiesa; ed esse sono un solo mistero; e nell’Eucaristia esso mi appare come mistero di unità, intima, reale, sotto ogni profilo, cioè mistero di comunione. Che per me, piccola creatura, è mistero di amore d’adorazione.

2. L’esperienza di mandriano

Al rientro in seminario, al termine delle vacanze estive, gli educatori riunivano i seminaristi e, dopo averci disposti in cerchio, per comodità di tutti (eravamo meno d’una ventina) ci invitavano a raccontare qualcosa delle esperienze appena concluse.

C’era chi diceva d’aver fatto il muratore, chi l’operaio in una fabbrica, chi il bigliettaio sui pullman, chi il cameriere. E tutti erano abbastanza felici perché, tra l’altro, avevano guadagnato qualcosa e, con quello, avrebbero potuto concorrere a pagare la retta. Verso la fine, immancabilmente ma inevitabilmente (differtur sed non aufertur, «ciò che è dilazionato non è tolto», dice un proverbio latino), giungeva il mio turno di parlare e potevo dire ben poco e, al confronto con i compagni, assai meno: avevo impiegato quasi tutta l’estate ad aiutare «in casa» (noi diciamo così), cioè nei lavori agricoli familiari, e non avevo guadagnato nulla! Avevo lavorato gratis. Mi vergognavo un po’ di questa mia arretratezza sociale, mi creava un senso di inferiorità e disagio, e avevo l’impressione ch’avrebbe potuto danneggiare la mia vita in comunità, nella quale, sebbene nessuno neppur lontanamente avesse il coraggio di ammetterlo, gli elementi «umani» a lungo andare avevano il loro peso e, per accorgersene, non erano necessari lunghi tempi.

Dei vari lavori agricoli compiuti durante l’estate, accennavo a quello della fienagione, cioè al mattiniero falciare l’erba e al pomeridiano raccoglierla, trasformata in fragrante fieno; omettevo di raccontare i lavori compiuti in stalla, che mi sembravano troppo umili; poi mi dilungavo sull’esperienza di mandriano, che forse era quella che m’aveva gratificato di più. Tali furono le mie estati fino a 24 anni, fino al termine del seminario. A distanza di trent’anni posso dire che le esperienze agricole di allora mi appaiono, al di là della loro umiltà materiale, nella loro preziosità umana, culturale e spirituale.

Sono infinitamente grato a Dio d’aver concesso ch’entrassero come patrimonio stabile nella mia personalità, offrendomi un «linguaggio» con il quale meglio intendere il mondo intero: le sue gioie e le sue speranze, le sue sofferenze e i suoi drammi; il suo amare in desiderio, in crescita, in realizzazione e nei suoi declini; il fremito che vive in ogni anima, in ogni età; la povertà e la ricchezza di cui tutti siamo impastati. Costretto ad apprendere un vocabolario primordiale, esso m’ha concesso, un po’ alla volta, di imparare ad ascoltare al di là dei linguaggi verbali e comportamentali, delle società e delle culture; e m’ha fatto dono di essere meglio me stesso. In quest’essere saldo nel mio io, nella mia umanità, accettata e per quanto possibile valorizzata, sta la mia forza, quale presento a Dio, quotidianamente, perché la sostanzi incessantemente con la sua grazia, per non vederla accartocciarsi in foglia raggrinzita e morta.

Dicono che le foglie nascono sui rami senza far rumore e che, sempre senza far rumore, se ne stacchino e cadano a terra; ma io sento il gemito felice del loro germogliare e m’accorgo della lacrima che versano, senza aver forza di pronunciar parola, nel momento in cui chiudono gli occhi alla luce. Vedo che i cuori umani sono come le foglie, e così sono le intere foreste, e così sono anch’io.

Ascolto, senza fretta. Ho imparato ad ascoltare, cioè a «bere la parola» che sta oltre il primo attimo di mancanza di parole delle creature, o semplicemente delle mie parole; quell’attimo che definiamo e ci appare come uno spazio di silenzio. Oltre il silenzio, e nel silenzio, la parola!

Noi, voi uomini tutti, e voi arricchiti di cultura e di potere: sapete cos’è il silenzio? Ne avete fatto un compagno ben accolto del vostro viaggio di vita e del vostro lavoro? Del momento in cui vi dedicate a voi stessi? Se non l’avete ancora fatto, vi compiango e vi temo. Vi compiango come uomini, perché non lo siete ancora compiutamente; e vi temo nel posto sociale che occupate, perché non sarete guide alla liberazione e alla gioia dei cuori umani, ma tenebre, per quanto dorate e apparentemente
luminose o, sia pure, cariche di frammenti di luce, che invilupperanno di sé il cammino dei molti o pochi altri con i quali avrete ad incontrarvi, a lavorare e a vivere. Senza accendere alla lampada del silenzio, alla sua parola intima, le parole nostre, con che potremo pretendere che siano parole di amore, luce, unità, slancio vitale? Qual sapore di eterno e di pulito avranno, se non nascono nel cuore dell’Eterno e del Santo?

In questa lettera, riflettendo a brevi tratti sulla mia esperienza di mandriano, ricaverò per voi, dopo che per me, cari amici sacerdoti, qualche considerazione; evidenzierò e cercherò di condividere quel che m’è parso d’aver appreso e m’è stato d’aiuto nel ministero sacerdotale. Noi diciamo sovente di essere pastori d’anime, ed effettivamente lo siamo; ma che significa, prima ancora, «essere pastore»? Sai tu, che hai la bontà di leggermi, chi è realmente un pastore? Sei mai stato pastore? Eppure, lo so per certo, vuoi essere un buon pastore d’anime; non ti sia sgradito, perciò, ascoltare quanto tenta di dirti un confratello che fu anche materialmente pastore. E ti ringrazio della fiducia e dell’attenzione che mi vorrai prestare.

3. Differenza tra pastore e mandriano 

A dire il vero, non fui pastore, quale lo intendeva la mia comunità, ma mandriano, il quale può essere pastore e per certi aspetti lo è, ma è una figura lavorativa diversa. Io andavo, secondo il turno, a custodire per un giorno le mucche del villaggio; partivo alla mattina, iniziavo l’attività alle 8 in punto, facevo rientrare le mucche alle malghe per le 18 e, una volta riconsegnate ai proprietari, il mio lavoro era finito. La mia era un’attività giornaliera, anzi diurna, che, di fatto, compivo in media due volte alla settimana, secondo l’accennato turno stabilito dalle regole orali dei proprietari di bestiame, tra i quali rientravano i miei genitori. In dialetto quest’attività era ed è detta: andà co le vache, «andare con le mucche».

Il pastore o pastre, invece, svolgeva (e svolge) il suo lavoro a tempo pieno, dall’inizio alla fine della giornata, per tutta la stagione pascoliva, da san Pietro di giugno ai santi Arcangeli di settembre. Poteva essere pastore di mucche (bestiam grós, bestiame grosso) o di pecore (bestiam menù, bestiame minuto); in ogni caso, non svolgeva un’attività definita, ma una professione permanente; e sarebbe stato pastore anche dopo i santi Arcangeli; lo era mentre esercitava l’attività e anche quando la sospendeva. Era una persona-pastore, una persona «diventata» pastore; andà co le vache, invece, era fare qualcosa, non diventare qualcuno, non esserlo. Io non sono pastore, perché non lo sono mai diventato; sono stato mandriano, uno che ha svolto una delle molteplici attività dei pastori, ho condotto per alcune ore alla settimana una vita come la loro, ma senza essere uno di loro.

Questa, cari amici sacerdoti, è una differenza che dobbiamo avere assolutamente presente. Gesù la conosceva e l’ha fatta sua, distinguendo tra pastore e «mercenario », che sarebbe meglio tradurre «salariato», aiutante, operaio ad hoc per un determinato lavoro; ma non il responsabile, nel suo complesso e sempre, di un gregge, com’è il pastore.

Quando Gesù si definì «il buon pastore» è come avesse usato (mi sembra di capire) un rafforzativo alla definizione di «pastore» come tale; il «buono» non è che una sottolineatura del «pastore», il quale non poteva essere che «buono», cioè a totale disposizione del suo gregge; totale come tempo, affetti e interessi. Il che non impediva potesse fare, secondo il suo carattere e le sue particolari inclinazioni, dell’altro; ma, in tanto in quanto avrebbe fatto dell’altro, non sarebbe più stato «buon pastore», «integralmente pastore», «pastore che si dona integralmente».

Per il buon pastore non esiste notte e giorno, pecora vicina e lontana; la sua mente e il suo cuore amano e vigilano sempre, le sue gambe sono sempre pronte a muoversi per andare alle pecore amate, soprattutto alle più bisognose della sua presenza, perché stanche, malate, tentate di ribellione o d’isolamento dal resto del gregge; la mano del pastore, materialmente o spiritualmente, è e sempre deve essere vicina alle sue pecore.

Il «sempre» e «in tutto» è la caratteristica dei pastori materiali. Vorreste forse che mancasse ai pastori spirituali? Vorreste forse far credere alle persone che sono ritenute da voi, che vi definite loro pastori, meno importanti e degne di attenzione e amore, di quanta ne ricevano dai loro pastori una pecora, una capra o una mucca?

Vorreste lasciar crescere in esse il dubbio che le amate «in tanto in quanto» e «da qui a lì», mentre per il resto pensate a voi? Che siete un pastore par time, che è come dire che siete un mercenario, un mandriano e un falso pastore? Nel campo spirituale, nella Chiesa, non sono ammessi i mercenari, coloro che fingono di vendere amore per ricavarne del denaro (vero); non sono ammessi neppure i mandriani, che lavoravano gratis, ma per turno e quindi per dovere anziché per amore; Gesù ha voluto, chiede e vuole solo pastori. Chi non sente in sé la sua volontà di costituirlo pastore può collaborare, offrire preziosi aiuti e servizi, ma non può costituirsi da sé pastore, ingannando la Chiesa.

[continua]

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