DON FLORIANO, Lettera ai sacerdoti della Chiesa cattolica, II su 3

Di don Floriano Pellegrini, del 4 febbraio 2011

4. «Mi ami tu più di costoro? » 

L’essere pastori è come l’essere padri; si colloca al livello dell’essere e non dell’agire. Sacerdoti, presbiteri e vescovi, se introduciamo il principio del giorno libero, se lo desideriamo, se dichiariamo che è legittimo, siamo fuori strada. Noi, certo, abbiamo bisogno di spazi nei quali dedicarci a noi, al riposo e a un legittimo svago; ma i fedeli hanno diritto d’essere certi che, sempre e dovunque, siamo rintracciabili, pronti ad accorrere alla loro voce; anzi a sentire che desideriamo accorrere ancor prima che facciano materialmente sentire la loro voce.

Tu, sacerdote, presbitero o vescovo, che consideri eccessive queste mie parole, sappi ch’io considero con pena e diffidenza il tuo essere nel sacerdozio e prego per la tua conversione. Non mi meraviglio, però, che il tuo cuore sia stato scosso e la tua mente si sia fatta pensierosa, a queste parole. So, a mio danno, quanto sia facile allontanarsi nell’intimo, pur magari mantenendo tutto all’esterno in mirabile ordine, dall’ascolto della parola del divino Maestro, il sommo ed esterno sacerdote, Gesù, nostro Signore.

Le stesse occupazioni pastorali, iniziate nel nome di lui e dirette alla gloria di lui, lungo il percorso che le attua, o per motivi intrinseci quali l’impegno e la stanchezza che comportano, o per motivi estrinseci, di ambizione di successo mondano che si affianca ad esse e per una strana illusione sembra renderle (tanto è misero il nostro cuore) più attraenti; tali occupazioni, nel mentre accrescono l’adesione dei fratelli a Gesù, possono allontanare noi da lui. In più di un caso ho sentito di sacerdoti, presbiteri o vescovi, che, al termine di una giornata di intenso lavoro pastorale, non trovano di meglio che piazzarsi davanti al televisore, giocare a carte, darsi a qualche piacere della gola e, Dio non voglia, a pensieri e compagnie non adatti allo stato sacerdotale. Ed ho sentito, in altri casi, di sacerdoti che si allontanano con incredibile disinvoltura dalla loro comunità, sotto apparenze nobili, quali corsi di studio, aggiornamento pastorale e spirituale; tutte cose giuste, sante e persino doverose; ma non voglio illudere me stesso con la menzogna: in più d’un caso si tratta, in quelle evasioni, del penoso concretizzarsi d’una visione inaccettabile della missione pastorale: questa sembra far parte dei doveri e, dunque, non appena e in tanto in quanto si può, senza recare eccessivo scandalo, la si abbandona per tutto (!) il resto, considerato – quello sì – spazio di libertà e piaceri. Non mi meraviglio, dicevo, che avvenga questo; ma questo non dovrebbe e non deve avvenire!

Nell’intimo della coscienza, in quel silenzio sacro che permette di percepire la voce e il canto soavi dello Spirito che ci parla dell’Eterno, un giorno, forse ormai lontano ma che è poi sempre vicino, abbiamo sentito e sentiamo rivolte a noi le parole che Cristo indirizzò a san Pietro: «Mi ami? Sì, proprio tu, mi ami più di costoro? Sono per te il primo nell’amore? Credi, con tutto te stesso, che io sono Colui che sazia la tua fame segreta e asciuga la tua sete nascosta?». Queste parole ci parvero allora, quando le udimmo per la prima volta, e sempre ci appaiono, quando solo non fuggiamo da esse, come il prolungamento di queste altre: «Io amo te, Pietro; io amo te, Creatura mia. Ed è per questo che ti parlo. Ho fiducia in te, desidero ardentemente che tu abbia piena fiducia in me». E queste altre ancora: «Sono stato io a sceglierti. Un giorno, quando tu non sapevi, ho posto su di te il mio sguardo. Altri ti passavano accanto e ti guardavano con indifferenza; io no, io sono Colui che desidera chiamati per nome, chiamarti Amico; certo: non solo servo; questo titolo di servo potevano
dartelo in molti; io ho desiderato chiamarti e farti capire che sei per me un caro amico».

All’ascolto di queste parole, straordinarie e serene, il nostro cuore allora è sussultato, e dovrebbe sussultare sempre. Abbiamo guardato negli occhi colui che ci parlava così; gli occhi della nostra anima hanno incontrato i suoi; in quelli della sua anima i nostri hanno visto che realmente ci amava, che le sue parole erano acqua ardente, fuoco che disseta, e ci siamo lasciati andare. Come Pietro, abbiamo cercato là per là di formulare una qualche risposta, con la quale fissare, più a noi stessi che a Gesù, un seguito positivo a quel dialogo, che nessuno aveva percepito, ma che nella nostra anima ci inquietava con il suo eco palpitante. Abbiamo cercato di dire: «Sì», oppure: «Eccomi», ma, alla fine, ci è parso meglio accontentarci di un più modesto:«Tu, Signore, sai tutto», poi, quasi a conferma e sottovoce: «Tu sai che ti amo». Fu allora che Gesù pronunciò quelle altre parole: «Pietro, amico mio, pasci, cioè custodisci, ciò che è mio, ciò che il Padre mi ha affidato (e di più prezioso non poteva affidarmi); pasci il mio Gregge».

Credete voi che il dialogo sia terminato così? No, così è stato formulato e tramandato dalla tradizione evangelica e apostolica; ma siamo ben autorizzati a credere, ed è l’esperienza in Dio nei nostri cuori che ci dà il potere di farlo, ch’esso non si sia più interrotto. Non è proseguito con la richiesta, da parte di san Pietro, di qualche giorno di vacanza o momento di ricreazione, di svaghi ambigui, sulla soglia dei quali il dialogo con il Cristo si sarebbe frantumato e interrotto; come se Pietro avesse desiderato togliersi di dosso, quale abito troppo stretto, quel «pasci il mio gregge». No, egli ben sentiva che proprio il ministero in sé, la possibilità di esercitarlo, era il grande dono che Cristo gli offriva, dopo che l’aveva riconosciuto a suo primario amico, «l’amato più di costoro, più di ogni altro».

E’, infatti, proprio il ministero, in sé, pur con le sue inevitabili fatiche, l’occasione nella quale vivere e sperimentare la grande gioia che Cristo ha di amarci, di prediligerci e di dare a noi la possibilità di stargli vicino. E se, qualche volta, noi abbiamo interrotto il dialogo di allora con lui, sempre possibile nel festoso silenzio del cuore, egli non ha smesso di coltivarlo; e la Chiesa ci assicura che, una volta ch’abbiamo ricevuto il bacio del sommo ed eterno Sacerdote, esso resta e resterà impresso per sempre in noi. Se dunque, nonostante ogni caduta e ogni tradimento, facendoci quasi agnello che si lascia prendere tra le braccia dal grande Pastore che il Padre ci ha dato, ci lasceremo avvicinare ancora al suo cuore e gli chiediamo umilmente (anche senza aprir  bocca) che desideriamo intendere di nuovo e meglio le sue antiche parole, egli ce le ripeterà con l’amore e la fiducia della prima volta: «Pasci il mio gregge», «Te lo dico settanta volte sette: pasci il mio gregge, tu che mi ami e non ti stanchi di pascerti di me».

5. «Sono forse il custode di mio fratello? » 

Il dialogo tra Gesù e san Pietro, tra Gesù e ogni pastore della sua Chiesa, è costituito da una domanda, da una specie di investitura e dall’accenno a una conseguenza. La domanda è subito percepibile e si concretizza nel verbo «amare», affiancato da un interrogativo; l’investitura nel verbo «pascere», affiancato da un esclamativo di comando; la conseguenza è duplice: la costituzione di Pietro nel servizio di pastore, il benessere che «il mio gregge», il gregge di Gesù, ricaverà da tale servizio, che è pertanto il fine ultimo dell’investitura, ossia del servizio sacerdotale di san Pietro.

Tale dialogo, sia per la struttura che per l’accenno al «pascere», richiama quello, noto allo stesso Gesù, tra i due fratelli (i primi, i fratelli per eccellenza) Abele e Caino. Anche in quel caso il dubbio, che si risolve però in una tragica certezza negativa, si concretizza attorno al verbo «amare», sottinteso, perché previo ad ogni intesa umana: l’amarsi dei due fratelli doveva esserci, per natura, potremmo dire; Dio non solo aveva ed ha voluto l’amore coniugale, tra uomo e donna, ma anche l’amore fraterno, tra tutti i membri dell’umana famiglia; l’uno e l’altro fanno parte della sua volontà creatrice, dalla quale non è possibile prescindere, senza introdurre nel mondo la morte, salarium iniquitatis mors, «la morte è il frutto del peccato». Anche l’investitura di un compito, conseguenza dell’amore, doveva essere percepito da Caino quale componente intrinseca alla sua realtà di persona, di creatura; egli doveva essere il «custode» o pastore di suo fratello; ma è proprio quest’incarico che Caino mette in dubbio con le sue parole e tradisce con i suoi gesti. Egli non sentiva più in sé la voce, la parola vivente di Dio e, di conseguenza, neppure attorno a sé. Il racconto biblico è simbolico ma, al di là dei simboli, i contenuti sono reali, profondi e permanenti.

Il confronto tra i due dialoghi potrà essere approfondito da ognuno. A tutta prima, appaiono due verità: 1) Il gregge a noi affidato (cfr. a san Pietro) è sempre gregge di Dio; 2) Il fine ultimo del pascere è la costituzione di una comunità di fratelli, la trasformazione della comunità umana nella famiglia dei «figli di Dio, fratelli di Gesù Cristo e membri della Chiesa».

«Pasci le mie pecore, i miei agnelli», dice Gesù. Il pastore può, poteva essere anche proprietario del gregge, o di una parte del gregge; ma, in quanto pastore, era solo il suo servitore e avrebbe dovuto rendere conto delle sue fatiche. Nell’esperienza diretta, da me fatta, questo mi veniva sempre ricordato, per quanto l’avessi ben presente. Dovevo rispondere del comportamento tenuto durante il giorno; le donne proprietarie delle mucche, al loro rientro serale alle malghe, osservavano se le avevo portate a ben nutrirsi e dissetarsi, se le avevo rispettate o bastonate; e avevano ragione, per quel giorno ero stato al loro servizio come mandriano.

Cari amici sacerdoti, un giorno anche a noi Gesù domanderà conto del gregge che, trattandoci da amici, ci ha affidato. Gli risponderemo, allora, come Caino: «Non ero tenuto a fare il custode di quei tali, di quei tal altri; ho pascolato chi stava nell’ovile, le pecore indocili si sono smarrite per causa loro»? Commentando l’assassinio compiuto da Caino, spieghiamo ai ragazzi del catechismo e agli adulti che è stata una mostruosità, un assurdo e rabbrividiamo di fronte a tale fatto. Ma noi vegliamo in preghiera, in penitenza o in riflessione per cercare tutte le strade e tutti i modi di ricondurre all’ovile e di far ben vivere nell’ovile chi è stato affidato alla nostra custodia? Nel fondo della nostra anima quante volte bussa la giustificazione di Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?». E non solo dei fratelli in difficoltà di fede, ché è ridurre la parola di Dio a una categoria di fratelli, a vantaggio della nostra pigrizia, ma di ogni fratello bisognoso. Pensiamo: «Non spetta a me occuparmi degli affamati, degli assetati, degli sprovvisti di vestito, dei senza tetto, degli emarginati, di quanti la società marchia d’infamia e disprezza»? Diremo un domani a Gesù: «Signore, era un disgraziato per colpa sua e della sua vita sregolata; più di tanto io non potevo fare…»? In ogni caso, Cristo ci risponderà: «Tutte le volte che tu, amico mio, non hai detto con i fatti a uno di questi miei fratelli “Ti amo più di costoro,
più degli altri”, non l’hai detto a me. Via, lontano da me, pastore disonesto!».

Le espressioni di Gesù, rivelate ai suoi discepoli e trasmesseci dai vangeli, sembrano dure, ma sono nient’altro che solide, schiette, virili. Sono le parole di un amico, di un vero pastore, che dice: «Di là non si può andare; la strada giusta del ministero è l’amore totale, non quel tanto di amore che ci si giustifica di poter dare». L’infinita misericordia di Dio non assumerà mai una maschera di luce per nascondere le tenebre; la misericordia divina del Cristo sarà sempre pronta a redimere le brutture del male, in tanto in quanto il male si lascerà riconoscere come tale e superare, per grazia, nel bene.

Il vero pastore, pertanto, aiuta gli uomini a essere uomini, in tutta la loro dignità e sotto ogni profilo del loro vivere; li aiuta a far nascere, crescere e manifestarsi in loro la realtà dell’essere figli di Dio, creature che appartengono esclusivamente a lui, al suo paterno rapporto di amore. Il «buon» pastore aiuta quanti gli sono affidati a divenire, a loro volta, custodi gli uni degli altri; è fraterno anche nel suo modo di servire e sa che è tanto più valido e duraturo, più rispondente allo scopo per cui Gesù lo desidera, in quanto crea una comunità di fratelli, non una massa di sudditi dei suoi capricci.

Infine, il pastore quale Gesù lo vuole, inserendo i fratelli in Cristo e portando lui ai fratelli, costruisce la Chiesa. Il sacerdote non è solo custode delle singole persone, pur le più bisognose e deboli del suo aiuto pastorale; non solo il custode e il promotore della fraternità universale, nel nome della figliolanza che tutti ci lega in Dio e a Dio. E’ e deve essere anche il pastore, custode e promotore del corpo mistico di Cristo, della Chiesa come tale. E’ anche la Chiesa, nel suo complesso che gli grida,
la grande povera, la grande affamata e assetata: «Ho fame, ho sete»; e poi aggiunge: «Venite a me voi tutti, affamati e assetati», quasi essa fosse ad un tempo la comunità di tutti coloro che hanno fame e sete e la comunità di coloro in cui trovano risposta i bisogni essenziali e vitali dell’umanità, le fami e le seti del mondo. Ed è proprio così.

No, nessun sacerdote può sentirsi un’isola! Né può fare della sua comunità, parrocchia o diocesi, un’isola!

C’è un solo grido che si leva al Padre dal mondo, quello del suo Figlio crocifisso; e questo grido strazia le carni della Chiesa: non sentite il dolore della Chiesa? Non vedete il suo sangue scorrere? Non vi accorgete che le forze le vengono meno e crolla, e non udite che ci ripete, con il cuore straziato: «Sono tua madre»? Sacerdoti di Cristo, non sentite questo, quando vi accostate all’altare, su tutti i Calvari del mondo?

E c’è un solo canto di lode, che, in tutte le lingue e sotto ogni cielo, ripete queste parole: «Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria, l’onore e la potenza. Perché tu hai creato tutte le cose, per la tua volontà furono create e sussistono. Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione; e li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti…».

Noi siamo sacerdoti e pastori sino in fondo se condividiamo il gemito della Chiesa e il suo canto di lode; essi non hanno né età, né tempo, perché unica è la bocca di Cristo che li pronuncia. Noi siamo sacerdoti di Cristo nel cuore di Cristo; ed egli è pastore di tutti noi perché nel cuore del Padre.

6. Il bastone pastorale e la voce 

Pellegrini, sempre, e quasi in una terra straniera a noi stessi, camminiamo con passo spedito verso il Cielo, da cui già riceviamo luce e calore. Se così non fosse, se fossimo già nella Patria celeste, non ci sarebbe bisogno di redenzione, né di sacerdoti. La presenza del sacerdozio nel mondo è un richiamo costante alla provvisorietà, alla caducità e al bisogno di essere sollevati dal peccato alla grazia, forza che non sta in noi, ma «piove dall’Alto», da quelle «nubi che mandano il Santo».

Normalmente si pensa che, per il sacerdote vescovo il bastone pastorale sia il segno del potere che gli è conferito dalla pienezza dell’Ordine sacro; non è una spiegazione sbagliata, ma non corrisponde al significato che il bastone aveva (ed ha) per i pastori. Tali bastoni di solito erano abbastanza sottili e lunghi (un metro e mezzo, due). Non erano scelti dai pastori per appoggiarsi, mentre accompagnavano il gregge; sì, potevano servire anche per questo, ma non era il loro scopo originario. Non servivano, anzi era assolutamente vietato adoperarli per colpire le bestie e una delle prime cose che le donne facevano al rientro delle mucche, era controllare se avevano addosso segni di bastonate (il sudore del viaggio li evidenzia sul manto peloso): allora si sarebbero arrabbiate e avrebbero pronunciato una sentenza unanime, che non sarebbe più stata ripetuta: «Non sei adatto a fare il mandriano, tanto meno il pastore». Chi bastonava le mucche era segnato a dito, nel villaggio, come se il bastone l’avesse marchiato in fronte; in paese gli avrebbero perdonato tante debolezze, ma non quel tipo di violenza, quel modo di fare.

A che serve e serviva dunque il bastone? A orientare le mucche, soprattutto, accostandolo, di lato e da dietro, al loro muso, per costringerle a prendere una direzione di marcia; a impedir loro di avvicinarsi ai dirupi o ai pendii pericolosi; a spronarle a procedere con il resto della mandria, quando si fossero attardate a brucar dell’erba a loro gradita ma di cui le altre mucche erano prive; non mi sovviene di altri usi. A titolo di documentazione storica, relativa alla mia comunità, ricordo che il
pastore responsabile (uno solo) della scelta dell’itinerario da far fare, giorno per giorno, alle pecore o alle mucche era chiamato bólco, poteva essere relativamente giovane (sui 18-19 anni) ed era responsabile del buon andamento generale della malga; le sue decisioni erano indiscutibili, ma le prendeva la sera prima, assieme ai suoi aiutanti, se ce n’erano, i vice-bólco, persone più giovani di lui, le quali erano state ammesse a quel grado perché avevano dimostrato una certa maturità complessiva e di saper mungere (nelle malghe lavoravano, infine, dei ragazzi, addetti ai lavori più umili, ed erano detti codarùol : strigliavano le mucche, portavano fuori il letame, lavavano i secchi del latte, ecc.).

Ognuno può fare da sé le giuste applicazioni ai pastori d’anime di tale verità, sfortunatamente sconosciuta. A cominciare da questa: i pastori d’anime, come quelli del gregge e ancor più, avendo a che fare con figli di Dio e non con pecore, sono e saranno «buoni pastori» solo nel caso in cui riusciranno a comandare senza usare la minaccia dei castighi o, come si dice, di «usare il bastone, al bakét».

Essi avevano (ed hanno) un altro strumento, di cui giovarsi, per indicare la via del cammino comune (sin-odòs), la qual cosa era (ed è) l’impegno principale dei pastori (dei capo-malga o bólchi e, a turno, dei mandriani). Quest’altro strumento era (ed è) la propria voce! Mi si chiederà com’è possibile: non era solo possibile, ma doveroso, e l’abilità di un pastore consisteva nel saper convincere le mucche con il semplice richiamo della voce.

E’ impressionante constatare che pure ai tempi di Gesù era così; egli infatti dice: «Le mie pecore conoscono la mia voce e mi seguono». La coincidenza è totale e molto importante nelle applicazioni pastorali. Le pecore (animali e, per analogia, le persone guidate da un pastore d’anime) devono sentirsi amate; nel tono di voce del pastore deve trasparire quest’amore, quel «io le conosco ad una ad una» che precede la loro risposta positiva, il «lo seguono». Questa è la metodologia fondamentale del rapportarsi del pastore con le pecore di cui è custode; metodologie diverse dimostrano, incontestabilmente, ch’è un mercenario. L’autorevolezza del pastore era fatta consistere nel far percepire amore (per le persone: che salva, unifica, guida, illumina, se del caso corregge; e tutto questo con le diverse modalità della voce o, se vogliamo ampliare leggermente, nell’autenticità dei rapporti diretti tra pastore e persona affidata alle sue cure pastorali).

Annoto qui un altro particolare dell’antico metodo pastorale: nell’andare ai pascoli il pastore (o mandriano) stava davanti e chiamava le pecore o mucche, che pertanto «lo seguivano» (cfr. Gesù, citato sopra); al rientro stava dietro il gregge o la mandria e non aveva più bisogno di chiamarle, limitandosi, in definitiva, ad osservare che non fossero andate nei pericoli e, comunque, sempre pronto ad intervenire. Mi fa piacere accennare a questo particolare pensando a Gesù, perché ho l’impressione volesse dire, nei suoi insegnamenti, che noi creature abbiamo sempre bisogno di lui e, finché siamo in questa vita, avremo sempre bisogno di essere guidati e di seguirlo e, dai pascoli ove ci conduce, non ci sarà bisogno di tornare indietro.

[continua]

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