DON FLORIANO, Lettera ai sacerdoti della Chiesa cattolica, III su 3

Di don Floriano Pellegrini, del 4 febbraio 2011

7. Il vincastro

«Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza»: del bastone ho parlato, ora qualche idea su quell’oggetto, misterioso ai più, che è il vincastro.

Si tratta, per lo più, di una cordicella, di varie dimensioni, con le quali legare un animale. E, anche in questo caso e in una maniera ancor più comprensibile, non per castigare, imprigionare o bloccare per punizione, ma per aiutare un animale in difficoltà. Come mandriano (pastore a turno di mucche), io non ho mai usato vincastri: non avrei potuto, né avrei avuto motivo di legare una mucca, neppure un vitellino, perché, per quanto giovane, nessuno riesce a portarlo sulle spalle. Forse è per questo che le immagini bibliche, usate anche da Gesù, presuppongono il riferimento non a mandrie, ma a greggi. Sono i pastori di pecore, infatti, ad usare i vincastri. Quelli da me visti erano per lo più strisce, abbastanza larghe, di cuoio, che i pastori recavano sempre con sé e utilizzavano in caso di necessità. Ad esempio quando un agnellino di pochi giorni non riusciva a camminare, o s’era azzoppato o ammalato, o era stato morso da qualche animale selvatico (lupi o volpi), allora veniva caricato a dorso di un asino (o mulo, a seconda delle disponibilità) e legato, permettendogli di restare nel gregge e, in definitiva, di vivere.

Nei casi di grande generosità, il pastore stesso si prendeva sulle spalle o si poneva sulla schiena, legato col vincastro, l’agnellino sofferente e, con ciò, lo salvava dalla morte. Tutti i buoni pastori erano pronti a far ciò. La totalità del loro servizio al gregge, in ordine di tempo, diventava coinvolgimento reale, persino affettivo; non è fuori luogo dire che «davano la vita» per il gregge, perché stabilivano il programma di vita non secondo i propri gusti, ma le necessità degli animali da custodire e accompagnare in pascoli sicuri, abbondanti d’erba, e nelle vicinanze delle sorgenti d’acqua. L’espressione «il buon pastore dà la vita per le pecore», usata da Gesù, è una di quelle frasi, abbastanza frequenti nel modo di parlare del suo popolo, formata da due parti, la seconda delle quali («dà la vita») è una estrinsecazione della prima («il buon pastore»). Nel suo parlare, cioè, nel caso concreto Gesù volle evidenziare il carattere di coinvolgimento e, in definitiva, di donazione totale di sé, della propria esistenza, che ogni vero pastore fa, con amore e con gioia, a vantaggio del suo gregge: «Non è uno che lavora per un salario, un mercenario, ma uno al quale le pecore importano, per il quale il benessere delle pecore è così importante da anteporlo al proprio».

Per quanto fosse presupposto il coinvolgimento totale del pastore con il suo gregge, il gesto concreto del prendere sulle spalle, o sul dorso, un agnellino sofferente non era frequente; non era raro, ma richiedeva una qualche padronanza nei movimenti del pastore, che avrebbe potuto essere colpito e ferito da qualche involontario calcio dell’agnellino; per questo ho parlato di grande generosità; che giunge al punto d’accettare qualche ferita, pur di giovare a chi viene aiutato.

Al di là dell’esempio, Cristo fece proprio così: ci ha cercato, senza lasciarsi bloccare dalle paure della sofferenza, che pur intuiva; è andato al di là di se stesso, dei suoi umani tormenti . Come una vera madre, ci ha generati a prezzo del suo sangue. E la corona di spine è il segno più eloquente del trionfo del Pastore che si fece agnello, e vittima innocente, per condurre «i fratelli» ai pascoli eterni del Cielo. Sì, tutto questo mostra a quali altezze giunse il «Pastore delle nostre anime»! Nella realtà da me conosciuta, non ho mai visto cose del genere! Ma noi crediamo che il Figlio di Dio, il sommo ed eterno pastore, si è fatto agnus Dei ed ha preso su di sé, nel sacrificio supremo della croce, che si attualizza in ogni messa, il peccato mortale dell’umanità allontanatasi da Dio, chiusa all’ascolto della voce di Dio. E ciò non venne da lui subìto, ma accettato per amore, per cui volontariamente disse: «Mi offro per voi e per tutti in remissione dei peccati».

In questo dinamismo sta il giusto, l’unico giusto, modo di fare di noi pastori d’anime; nel fuggire il peccato, ma non i peccatori. Noi, cari amici sacerdoti, dobbiamo essere sempre pronti ad andare incontro a chi è in difficoltà nel suo vivere all’interno del gregge; pronti e disponibili a perdere il nostro tempo e i nostri progetti, ad «abbandonare le novantanove pecore sicure» per cercare quella ferita e che sta per perdersi. Dovremmo avere sempre con noi un qualche vincastro spirituale, un qualche supplemento d’amore, per vincolare (da cui la parola vincastro) a noi chi si sta allontanando. Tentare mille modi, mossi da un solo cuore; cacciati dalla porta e cercare egualmente tutto ciò che possa riconciliare, grande e sapiente o semplice e popolare; fare di ogni mezzo umano moralmente lecito un vincastro, con il quale restare, tentare almeno di restare in comunione vicendevole; presbiteri e vescovi, sacerdoti e laici, movimenti ecclesiali e gruppi fuori della Chiesa. E tu, Pastore insanguinato, di cui ci diciamo indegnamente sacerdoti, miserere nobis! Continua misericordioso, ti preghiamo, a tenerci sulle tue spalle, ove a volte restiamo così ingrati e recalcitranti!

8. Diocesi e parrocchie (pievi) 

Ho detto tutto quel che potevo ricavare dalla mia lontana esperienza di mandriano, per un’utilità di cura d’anime e, prima ancora, per una migliore comprensione delle parole di Gesù, che ci comanda di essere pastori: «Pasci!».

Aggiungo che nella mia esperienza diretta di custode di una mandria, ho notato che si potevano verificare due situazioni contrapposte, egualmente deleterie.

La prima era quando la mandria era troppo grande, di oltre venticinque-trenta elementi. Allora un pastore, per quanto bravo e disponibile, non riusciva più a gestirla da solo, aveva bisogno di farsi aiutare. Il comando tramite la sola voce diventava quasi impossibile o, meglio, era (ed è) indispensabile che bólco e aiutanti avessero (abbiano) una sintonia totale nel rapportarsi con le bestie. Ogni discrepanza sarebbe stata avvertita subito dalle mucche e avrebbe portato all’ingovernabilità della mandria. La seconda situazione negativa, opposta, era quando la mandria era troppo esigua (meno di dieci capi); in quel caso il bólco sarebbe facilmente caduto nell’errore di portarla sempre e solo in alcune radure, quelle a lui più gradite e non quelle effettivamente più utili agli animali custoditi; veniva cioè omessa quasi del tutto la ricerca di nuovi pascoli, attività che (come abbiamo visto) era l’incarico quotidiano del pastore; insomma, egli si adagiava nel suo quieto vivere ed era una forma per tradire, senza dar nell’occhio, il proprio servizio.

Sono ben lontano dal dire che il gregge dei fedeli segue comportamenti simili; il paragone in questo caso mi sembrerebbe irrispettoso. Pur tuttavia, osservando le due situazioni solo dal punto di vista del comportamento del pastore (e non del gregge) osservo che pure nella cura pastorale delle anime entrano «in gioco» fattori simili. In una comunità troppo vasta, per numero di componenti, un «buon pastore» sente, sovente come invalicabile, la difficoltà di rapportarsi in modo pastoralmente fruttuoso con tutti; e nelle comunità troppo piccole, il pastore d’anime è portato a credere d’aver fatto tutto quando semplicemente ha fatto «quello che s’è sempre fatto».

Mi sembrerebbe opportuno, pertanto, cari amici sacerdoti, presbiteri e vescovi, che si tentasse, ove possibile, la costituzione di qualche parrocchia più vasta, magari osservando e riprendendo la struttura delle storiche pievi, loro matrici. E, contemporaneamente, vedrei molto opportuna la formazione di qualche nuova diocesi, all’interno di Chiese locali troppo vaste, nelle quali il vescovo rischia di incontrarsi troppo poco e troppo burocraticamente sia con i fedeli laici che con i presbiteri.

L’organizzazione dell’evangelizzazione tramite nuove strutturazioni delle comunità ecclesiali (per allargamento di alcune di quelle parrocchiali e per restringimento di alcune di quelle diocesane) mi sembra una via possibile e ragionevole da tentare, soprattutto lì ove, come in Europa e in America Latina, è emersa la necessità di una nuova cristianizzazione.

9. «Vi farò pescatori di uomini» 

Mi congedo da voi, cari amici che m’avete letto, ricordando un’altra similitudine, utilizzata da Gesù per indicare il ministero sacerdotale.

Oltre che ai pastori, il divino Maestro ci paragonò ai pescatori. E’ un paragone che risale alla sua viva voce e in antico era ben presente, come sarebbe giusto fosse valorizzato al giorno d’oggi. Lo documentano, tra l’altro, alcuni mosaici della patriarcale basilica di Aquileja e quassù da me, nell’antica pieve di San Floriano di Zoldo, due delfini guizzanti di gioia, semplicissimi, in legno, posti ad ornamento della sede del pievano. Era come dirgli, da parte dell’artista e della comunità: «Ricordati che devi portarci vita e gioia; tu sei il nostro pescatore, memore delle parole di Gesù: “Vi farò pescatori di uomini”».

Il paragone può dar fastidio a qualcuno, che non lo comprende; come dà fastidio a più d’uno quello del pastore, delle pecore e del gregge; questi tali dicono: «Io non sono una pecora, ma un essere ragionevole», oppure: «Non voglio cascare nella rete che, come una trappola, tendete ai miei piedi e alla mia libertà».

Non è così, non si vuole ottenere questo, voi ben lo sapete! Con quei due paragoni, si vuole solo esprimere in che consiste il servizio cui abbiamo l’onore e l’onere di essere stati chiamati da Gesù e dalla sua Chiesa: il servizio, splendido, della disponibilità totale a favore del gregge, nell’immagine del pastore; e, in quella del pescatore? Oh, grandezza degli insegnamenti di Gesù: la necessità di andare incontro, noi, agli altri; di cercarli e portarli a lui, cuore del nostro cuore, di affratellarli a noi, di unirli a noi in reti di puro amore, in libertà, nell’ascolto delle parole divine dello Spirito, in obbedienza al Padre creatore. E’ come se Gesù ci avesse detto: «Vi farò cercatori di uomini. Non basta attendiate che bussino alla porta della vostra casa; vi chiedo, vi supplico che siate voi a fare il primo passo, quando ancora non sono con voi, di attirarli a voi e a me; e vi do la forza e quanto necessario perché possiate farlo; ve lo suggerirò in quel momento quel che dovrete dire».

Con queste parole, con questo invito all’amore che fa il primo passo, rivoltoci da Gesù; con il suo spronarci al coraggio, a porre la barca in acqua e gettare le reti, per quanto le nostre anime siano attraversate da riserve; a credere più alla sua parola e alla forza della sua presenza che a noi e alle nostre contraddittorie sicurezze, mi congedo da voi, caramente salutandovi e ringraziandovi se riterrete, nel vostro animo, che qualcuna di queste parole possa esservi di qualche giovamento. Ma soprattutto ringraziandovi di quanto fate per Dio, per Cristo, per la Chiesa. Ecclesia vobiscum! Et in spiritu nostro.

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