DON FLORIANO, Lo spirito mitificatore dell’antica cultura alpina. La mia esperienza diretta. II

Di Don Floriano Pellegrini

I SOGGETTI DEL MITO.

Nel dinamismo ri-creatore del mondo, affidato al gioco dei ragazzi, se i nomi attribuiti a qualche realtà dell’ambiente variano, se mutano le leggende relative a posti e cose, alcuni contenuti del mito, cioè della sensibilità prerazionale, e le loro raffigurazioni, perdurano, grandiosi e affascinanti; motivo di prolungate meditazioni, eco di vaste solitudini sociali, mèta di ripetuti percorsi fantastici.

Il risultato non è, come avvenne presso i popoli precristiani, l’elaborazione di una nuova religione. Il cristianesimo era ormai, come religione, il dato di fatto, socialmente elaborato e normativo sia dal punto di vista ideologico che rituale; anche se la cultura mitificatrice condivide, senza saperlo, vari capitoli dell’antica spiritualità animista.

Eppure, il rapporto costante e vitale con la natura imponeva (e impone) quasi automaticamente l’elaborazione dei sentimenti panici di paura e libertà, di lotta e rassegnazione, di estrema solitudine ed estrema solidarietà. L’onnipotenza di Dio non si blocca forse davanti alla violenza delle alluvioni e al morso fatale dei ghiacci? La sua onnipotenza non può forse rivelarsi, e con maggior «naturalezza», oltre le porte di un santuario? Non è lui che fa splendere il sole e scendere la pioggia? Anzi, non sono forse tutti gli esseri sue creature, opera di lui, messaggeri di lui, veicolo delle sue benedizioni e dei suoi castighi? Era ed è difficile percepire la trascendenza del divino, quando la sua presenza è affermata in modo così insistente!

Questa cultura è inoltre priva di concetti quali «persona», «soggetto», «oggetto», che, pure, qui sono da me utilizzati e con abbondanza. Essa si serve, nella sua originalità, di concetti più generali, quali: (un) essere, (una) realtà, qualcosa o valch. Valch (dal latino «aliquid») è qualcosa, certo, ma dai contorni imprecisati, in parte nota e in parte sconosciuta. Gli esseri umani sono circondati da realtà che sono valch: soggetti oppure cose? esseri dotati di consapevolezza? fino a che punto? capaci di rapportarsi con gli umani? per quale scopo? Dèi? uomini? spiriti? energie dotate di un’anima sensitiva? Apportatori di bene o di male? Manifestazioni, comunque, della vita al suo stato archètipo, della sua ricchezza e indecifrabilità; ma anche decifrabilità, se tutto (uomini, piante, animali, universo) fosse scritto, come potrebbe essere, con le lettere di un unico alfabeto. Secondo il mito, di questa energia, a metà strada tra l’inanimato e il dotato di anima, è impastato l’universo.

Ma, secondariamente, tale energia – sempre secondo il mito – si incarna e si rivela con maggiore chiarezza in alcune realtà particolari, che potremmo chiamare soggetti, per non perdere il senso di una loro vita autonoma, per quanto non siano definibili come persone.

Chi viene in montagna, chi sale sulle Dolomiti e non si sforza di mettere in seconda linea il proprio razionalismo, pur così produttivo di bene, per lasciarsi coinvolgere e, potrei dire, quasi travolgere dall’intuizione dello spazio profondo delle cose, lì dove opera il grande palpito della vita; chi non ammette che in queste sensazioni di stupore e di provvisorio appaiono luci di verità dimenticate; chi non crede, con la forza della fede, l’entusiasmo e la purezza d’un credente, che questa è la strada per cogliere il panorama stupendo dell’unità originaria, è inadatto a vivere in sé lo spirito del mito creatore.

Ah, il brivido della prima volta, e sempre! Il respiro sospeso e il tuffo, nel fragore delle immense cascate; la vertigine dell’abisso e le profondità infinite, le mille voci e il canto della vita, e il tesoro della parola ritrovata!

– La bianca distesa della neve e il verde prato: il ritratto della tua fresca primavera.

– Le rosseggianti albe e i tramonti infuocati: il tuo bagno d’aria, mattiniero e serale.

– Il passerotto morbidone, che canta nascosto sul ramo: le carezze pomeridiane affiancati, sulla lunga staccionata del rifugio.

– Il profumo del pane e della selvaggina: voi due, gorgoglio e fragranza, lungamente attesi.

– Il melodioso rintocco delle campane laggiù, nel fondovalle: lassù, ove la luna rallegra le stelle, va un pallido bacio.

* LA MÓNT.

Il termine mónt, ovvero montagna, indica la zona pascoliva, sempre piuttosto estesa, ricca di spiazzi erbosi, di boschi di larice e d’abete, a piantagioni diversificate, di paesaggi, a volte d’incredibile bellezza. Ogni villaggio ha la sua mónt, stabilita secondo scelte comunitarie e goduta con regolamenti in cui tutti si riconoscono, tramandati da una generazione all’altra.

È la montagna nel suo aspetto materiale, quale può essere misurata, stimata per reddito, venduta e comprata, per la quale sovente avvenivano liti tra villaggi contermini. Percepita nello spirito del mito, ne è però il soggetto per eccellenza.

Eccola, Dèa o Dio, divinità comunque, adagiata nella gestazione del mondo, pulsante di sacro sangue verde, forte come il nero, e biondeggiante di sole. Un susseguirsi di rigogliosi seni, che il vento accarezza e rassoda, suo angelo, per chinare infine le sue ali, bianche e rosse, nelle fenditure del suo grembo. Gioia di sciogliere le catene delle dure resistenze nelle vene d’acqua nivale, mentre la sua aspra solitudine sembra discostarti. È a due passi, e si fa raggiungere; si fa cercare, ed è fedele e giusta. Invita e tiene a distanza; promette la pace e costringe al combattimento della conquista. Una, mille volte ti ha lusingato e tu ti sei lasciato andare, allo splendore della sua verità presente, per espanderti corpo a corpo, e spirito a spirito, tra le sue creature. Sedotto, in balia del piacere, con la serietà e la gioia che i ragazzi mettono nel gioco, continui ad accarezzarle con il passo e con lo sguardo i fianchi sinuosi (o sono, forse, i suoi lunghi capelli sparsi?). Quando ti cede, s’adagia silenziosa e dolce tra le tue braccia, e tu hai l’impressione di sentirla tremare. Ti va sussurrando che non puoi fermarti ad amarla, ma potrai raggiungerla di nuovo, e – te lo promette – se sarai abbastanza ardito, si lascerà di nuovo vincere.

Mentre corri libero sui pianori della mónt, ne sali le cime, ti arrampichi sulle sue pareti rocciose, ti rinfreschi all’acqua gelida dei suoi torrenti, oppure riposi nella freschezza delle sue erbe in fiore, intuisci che la sua essenza vitale, sempre rinnovata, altri la riceveranno in dono. Tu l’ascolti, grato, senza dir parola. Il tuo viaggio nell’inquietudine è finito; la cappa di nebbie che di tanto in tanto avvolge la tua anima, s’è sciolta; non hai più bisogno, come prima, di cercare fuori quella riconciliazione con te stesso, che ora senti dentro. La pace della montagna ti avvolge, è con te e con il tuo spirito; e senti nascere il desiderio di espanderla, comunicandola.

La montagna è il non-detto della civiltà, la casa che ne conserva la culla. Lo spazio che non è ancora dell’uomo, ma dato all’uomo; il luogo dell’appuntamento con sé stessi, senza equivoci stordimenti; l’inizio di una scalata e di un’ascesa verso un modo d’esistere rinnovato. Nell’attuarsi della conquista, interiore e fisica, la libertà sposa il piacere; fatica e sforzo risalgono alla sorgente che li giustifica; la prospettiva si allarga verso traguardi programmati e desiderati che, progressivamente, sono sostituiti da altri, impensati e gratuiti. Slanciate verso il cielo, le pareti rocciose ripetono, nell’eco del vento, il nome della grazia. E stanno davanti a te, e per te, invitandoti alla loro immensità.

È bello, allora, intuire che il presente è degno di essere vissuto. La montagna lo suggerisce.

Lo sguardo è limpido e ha davanti a sé l’oggetto amato, amabile soggetto della sua adorazione interiore. Ad una ad una le condizioni e le resistenze sono cadute. Lo spirito ha levato i calzari ed è entrato nella sua terra, l’unica compiutamente sacra; è stato condotto dove non vorrebbe, e pur vuole: è la sua ora. Circondati e adornati da frassini, sorbi e ciliegi, i villaggi sembrano far da contorno, mentre il profumo delle resine vaga sopra quello dei comignoli lontani o degli invisibili fuochi dei campeggiatori, respiro di bosco e di verginale freschezza.

Non vale la pena vivere in montagna con tante precauzioni intellettuali da restar monchi di cultura reale, né ci vuole un tempo speciale per cogliere l’alfabeto della sua primordiale saggezza. La luce del sole riscalda e feconda, ma può abbagliare e inaridire; l’acqua disseta e purifica, ma può annegare e inondare. Del pari, la montagna non illude né inganna, la durezza è il segnale della sua sincerità; l’acciaio del suo splendore non ammette di fondersi con il fango delle leggerezze e dei compromessi; si sa.

Luoghi-soggetto di particolari elaborazioni mitologiche, poi, all’interno della mónt, sono le grotte e gl’incavi tra i massi, soprattutto quelli nascosti al fondo delle vallette lontane dagli itinerari consueti. È preciso in me il ricordo di alcuni di questi anfratti, la sensazione quasi di paura nell’accostarli, come se da un momento all’altro avesse dovuto compiersi lo svelamento del loro mistero, l’apparire e il materializzarsi in essi d’una luce vivente, d’un’anima in pena, d’uno spirito dell’aldilà. Sotto l’ombra tremolante delle fronde, sullo spiazzo loro antistante, i raggi del sole scompaiono, ricompaiono; all’improvviso, come fulmini abbaglianti, attraversano i tratti in penombra. Questi, allora, si accendono di luce – l’erbette sono smosse da pennellate di chiarore, danzanti, e in quella luce par d’udire più distintamente le voci e i suoni degli abitatori del bosco -, di nuovo scompaiono, e riappaiono. Si avanza in questo tremolare della luce, nella sua ineffabile armonia e nel canto del silenzio. Dentro, la gioia di riconoscersi e di vedersi nella pace; e par che il gaudio affiori sulle labbra. In quelle fenditure della mónt par d’udire il preannuncio sommesso che ogni altra ferita interiore è risanata; e, fosse anche solo un presentimento, gioverebbe all’anima, quasi avesse acceso una candela alla divinità ignota che sta nella grotta. Oh, le vesciche ai piedi, dovute agli scarponi, sono nulla al paragone del cinico risucchio dell’anima messo in atto dalle sedicenti civiltà progredite! Gli spiritelli che popolano le fenditure della boscaglia sono più reali delle fumiganti escremenzate dei tête-à-tête degli intellettuali signorsì!

Attendo il giorno in cui anche le città sentiranno il bisogno di essere civilmente selvagge, e la voce del canto si fonderà con le melodie ricorrenti d’uno zufolo, come oggi il frastuono delle automobili. Il giorno in cui ogni casa avrà il suo giardino, ogni quartiere il suo spazio verde, e ogni coppia di amici potrà disporre di un’oasi segreta, ove terminare una corsa, in pace con sé stessa e il mondo.

* I CUCÙ E LE ŽÌRIGHE.

Aristofane non faceva un puro lavoro di fantasia, quando immaginava che gli uccelli dovessero ricevere gli onori riservati agli Dèi, ma il suo Pistètero non poteva conosceva il mito e l’annessa usanza nostrana di chiedere oracoli al cuculo, anziché ad Apollo. Con i vantaggi, s’intende, di tempo e trasferimenti, che si figurava lo stesso ideatore di Nibucuculia.

Il cuculo ha una voce con due soli toni e, per questo, «madre» natura, che a tutto provvede e a tempo opportuno rimedia, gli ha messo a disposizione un mezzo singolarissimo: il potere di scrivere su particolari foglioline del sottobosco. L’alfabeto è speciale e solo i vecchi più saggi, esperti delle regole del cosmo e dei segni dei suoi mutamenti, sono in grado di intenderlo. Solo essi, perciò, sono in grado di leggere e spiegare quanto il cuculo vuole si venga a sapere tramite le foglioline.

Tali foglioline, chiamate létere del cucù, sono tutte diverse e, quando una si secca, il suo messaggio è perso per sempre. È vero che non tutto quello che il cuculo dice è importante, ma è meglio avere l’astuzia o l’ingenuità dei bambini, che le ritengono tutte di valore e, quando le trovano, le fanno subito leggere. In tal modo, lettera dopo lettera, apprendono una favola antica, un proverbio o, più spesso, un messaggio personale, del tipo: «Andrea, obbedisci a tuo padre, se vuoi farlo contento», «Fabio, non andare a giocare nelle pozzanghere», «Maria, impara a filare, e sarai una sposa felice».

Noi ragazzi ascoltavamo in silenzio e con attenzione la spiegazione che la pastora o l’anziano ci faceva fogliolina dopo fogliolina. Del resto, ci spiegavano, alcuni che non avevano prestato fede ai messaggi erano incorsi in una serie di disavventure, perché il cuculo sa fare agli uomini e agli altri uccelli scherzi poco simpatici. Ad esempio, può svelare a una persona, che non dovrebbe saperlo, il nostro affetto o rancore per una terza.

Ci spiegavano, poi, che anche con il canto è in grado di fare oracoli e incantesimi. In aprile o maggio, quando lo si sente cantare per la prima volta (nel nuovo anno), se si esprime ad alta voce e quasi gridando un desiderio qualsiasi, esso si avvererà; importante è che il cuculo lo senta. Negli stessi mesi avremmo potuto interrogarlo sul numero degli anni che mancavano al nostro fidanzamento (non allo sposalizio!) e su quanti anni di vita ci restavano. Le due domande dovevano essere fatte secondo un formulario fisso : «Cucù da la coda riža, cuanti àin me dasto prima che sone nuìža? Cucù da la coda stòrta,cuanti àin me dasto prima che sóne morta?». Ogni «cu-cu» di risposta era da intendersi come un anno. Ho già evidenziato, in un apposito saggio, come nella cultura zoldana l’interrogativo è formulato al femminile, quasi fosse stata una curiosità o una preoccupazione solo delle donne. Deve trattarsi, d’altronde, di una credenza diffusa, se anche Anton Cechov nella novella «Nel vallone» scrive: «Un cuculo contava gli anni di qualcuno, sbagliava continuamente e ricominciava daccapo».

Le žìrighe sono le rondini, un animale decisamente sacro, intoccabile e (orrore!) immangiabile. Il motivo esatto di simile atteggiamento riverenziale, non esclusivo neppure in questo caso, mi sfugge. La cultura arcaica alpina, da me appresa, crede che la casa ove la rondine fa il nido sia benedetta; e, ciò, non tanto perché la rondine porti una particolare benedizione, quanto come suo attestato dell’essere quella una casa in cui regna la concordia e l’amore, cioè già benedetta dalla pratica di simili, grandi valori umani. A causa dell’intercomunicabilità che anima il cosmo, la rondine sa intuire i sentimenti delle persone e dare persino un giudizio etico! Il quale, veniva (viene?) «recuperato» e interpretato, a livello razionale, secondo i parametri della morale cattolica, ma che partiva, come dinamica, da (in) uno spazio preliminare, qual è, ancora una volta, quello del mondo pre-umano, e a tale mondo si riconosce un valore positivo.

* AL VÉNT E LA VÉNTA.

Scatola magica di prestigiatore, la natura; il vento, la sua bianca colomba.

Vi fu un tempo in cui non potevo immaginare la montagna senza udire – qui, ove pulsa il cuore – il suo respiro; ogni mattina andavamo chiedendoci – il mio cuore ed io – s’essa era ancora viva. La bianca colomba batteva un colpo d’ali sui vetri della finestra, portandoci il lieto annuncio ch’era terminato il diluvio universale della notte. Quel tempo è ancora.

D’estate e d’inverno, sempre; nelle primavere e negli autunni, sempre! L’ho sentito ridere al sole, il vento, piangere nella notte. L’ho visto inseguire la luna sul carro cristallino d’una nube; osservandolo, sentivo il mio corpo farsi piccino e lo spirito prendere le vaste dimensioni del cielo stellato. Ed era pace, infinita pace, alle note di una pensosa ninnananna.

Mai ho tentato d’imprigionarlo, di comprenderlo, di trattenerlo. Mi sarebbe bastato raccogliere in un’ampolla l’eco della sua terribile o soave maestà; fissare in un colore l’impronta che, libero signore, fuggendosene avesse lasciato a prova del suo passaggio. Null’altro. So che ci siamo incrociati, un giorno, mentre, quasi biondo efebo inseguito dal suo amante, scompigliava i campi di orzo; l’ho visto sulle scapole dei monti, mentre batteva le ali per risvegliare il sole, ed aveva il volto rosa chiaro di fanciulla; l’ho udito gracchiare nero sulle alture disadorne, puntate di corvi; mi apparve rosso tra le vampe dei tramonti, bianco tra i vortici della neve, verde tra i germogli di maggio, blu tra le onde di un ruscello prima del temporale.

La ragione osserva il vento come fenomeno atmosferico, il suo essere un «fatto»; l’intuizione lo coglie nelle sue potenzialità. Per il mito è l’eterno fecondatore dei campi, il timoniere dei boschi, il prima e il dopo della vita; l’avanti, marsch!, che la gagliarda giovinezza del sangue impone ai suoi fidi eroi; il sussulto del mondo ai palpiti delle prugne acerbe, tra un volo di bianche farfalle e il dondolarsi della rosa rossa (è questione di punto di vista e di capacità di vedere; non c’ è scienza che tenga). È il senso della profondità e della realtà virtuale, lo stadio immenso del mondo che grida: «Goal!».

È il continuarsi del gioco, nel mutare del concetto stesso di essere, non più identificato con la realtà attuale, con la grintosa e pur provvisoria consistenza del momento presente.

Ci precede di cielo in cielo, di mare in mare, fuoco in fuoco, terra in terra, scavalcando le montagne del verde, tuffandosi nelle onde dell’azzurro. Tutte le strade portano a lui e da esso sono battute, mare senza confini, voce della provvisorietà del presente, cielo vivo della mónt, nel quale sembra dolce persino cadere o lasciarsi trascinare.

Questi sono i sentimenti della cultura locale riguardo al vento, per la quale è soggetto tanto importante che per esso, pur nella povertà generale dei vocaboli, essa prevede ben due termini: il vént e la vénta.

Al vént, al maschile, è l’impeto ventoso, la tempesta e la furia d’aria che s’abbatte sulla boscaglia; il momento della paura e dello sconcerto; l’irrompere sul pacifico creato di una forza bruta e incontrollabile; è il Vento dell’Ovest che colpì alla fronte Giacinto, giovinetto spartano; l’ululato del lupo sanguinario, araldo della morte, perennemente annidato tra le insenature della montagna. Ma questa potenza, stupore del male, è per fortuna di breve durata.

La vénta, al femminile, soffia invece per ore e giorni, nènia e lamento, inconsolabile e dolce. È essa, propriamente, il soggetto della trasfigurazione mitificatrice. È al principio dei tempi e sarà alla fine; nell’oggi è donazione di ogni ricchezza passata, anticipazione di quelle future. Respiro e respirante, la montagna che vibra nel suo perenne incanto musicale, la voce essenziale. Colui-che-è-innanzi, il trascinatore; colui nel cui alito fuggevole è conservata l’eco della mutevole presenza delle cose. Colui-che-avvera, il fortificatore. Brezza che porge il saluto benaugurale alle stagioni e ne celebra l’addio…

Amabilità diffusa, che s’erge sovrana su corpi alla conquista e vinti – sterminato campo di battaglia -, che accarezza e incorona, e avvolge di pietoso oblio. E già sono rinnovate battaglie, in cieli e terre mai apparsi nella vibrante luce, nel caldo sole.

Metafisica d’un sogno d’amore, il vento; ciò che più è importante, perché ha impresso del suo sigillo la misteriosa forza di trascendersi.

Godibilità antica e nonostante tutto, che avvolge e compenetra l’universo di adolescente desiderio di giocare, e di caldo godere. Metafisica del gioco e del piacere, fauno irrequieto e speranzoso. Qui rinserra le scoppiettanti note del focolare domestico, là i sordi e ripetuti colpi del martello del fabbro. Qui prolunga e smorza le oscillazioni del tuono, là ascolta il frusciare vellutato d’infinite foglie.

Attorno a te, vént e vénta. E in noi, nello spazio libero dell’universo fisico, senza interruzione con quello circostante e con quello spirituale; la brezza e lo slancio che ci tiene in pugno: foglie, or vellutate e or rinsecchite, e pur sempre da essi avvolte di muschiata tenerezza; vibrazioni e tuoni, ai ritmi della conosciuta danza. Oh, farsi fucina, farsi martello, come la brezza e lo slancio suggeriscono; dentro! Gioco di specchi, ciò che ci appare «dentro»…

Tu: ascolti il fascinoso garrire del pennone e ti chiedi se il paradiso non sia un immenso focolare, un perenne divampare di scintille. Ma, domandandotelo, hai già superato l’invisibile barriera tra l’intuizione e la ragione, e lo spirito mitificatore si scioglie, lasciandoti davanti agli occhi un pupazzo di neve deformato.

E DOMANI?

Sento lo spirito perenne soffiare sulla mia polvere, tener desta la fiaccola dello stupore iniziale. Sarà sempre così, finché l’anfora dell’esistenza giungerà al colmo.

Ogni presente ha la sua completezza, ogni istante il suo bagliore di luce, e il sorgere di una libertà nuova. Altri verrà ed è, nei quali mi ritroverò, e le mie parole saranno seme e attimi d’altra gioia, d’identico stupore.

Uomini e donne del mio oggi, giovani soprattutto: che sarà di noi, se non torneremo all’antica sorgente? Se non recupereremo, nella giusta distanza dalle culture altrui, il senso della nostra?

Ho amato! La montagna e il vento m’hanno fatto percepire la gratuità della vita, sospesa tra la solitudine infinita e l’illimitato dono. Goccia a goccia, sto nascendo a nuovo giorno e sto morendo. Sono pronto. La mia felicità è stata, fin nelle radici del desiderio, un tempo di condivisione. Nulla mi è sembrato insignificante, né il canto della neve che si scioglie, né il battito d’ali d’una farfalla.

Per vederti meglio, spirito, ho tracciato la tua immagine con la punta d’un dito sopra un vetro appannato; sarà osservata? Sarà amata e ritracciata sull’anima delle generazioni future? L’aria odora di bianchi lini, stesi ad asciugare al sole.

[2. Fine]

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