DON FLORIANO, Pensieri alla rinfusa (ma non a casaccio)

1) M’ha fatto piacere che il testo delle «Primizie», divulgato senza pretese e quasi per un capriccio, abbia avuto vari riscontri, con i quali i destinatari si sono mostrati tutti grati d’averlo avuto. Significa che c’è ancora tanta gentilezza, quand’anche spesso se ne dubiti. Essa incoraggia a fare il bene e ad andare di bene in meglio.

2) Da qualche giorno la neve è voluta venire in vacanza anche da noi, in alta Val di Zoldo, ed ha portato con sé tutta la compagnia illustre delle damigelle e dei cavalieri: il ghiaccio, il pericolo di cadute, la seccatura di non poter fare quei «due passi» giornalieri che tanto giovano e… paggetti d’onore vari. È però vero che, una volta allontanatisi i fastidiosi accompagnatori, la neve apparirà in tutta la sua splendente bellezza e per lunedì è previsto che il Cielo faccia da Narciso sopra lo specchio innevato dei prati, dei boschi e dei monti. Le ore di luce, tra l’altro, si fanno sensibilmente più lunghe, per cui attraversiamo le due settimane di metà inverno con relativa fiducia, pur rassegnati, fino agli ultimi di marzo e persino a San Marco, a possibili sorprese. Oggi, pensando all’antico adagio popolare, non tira vento ma «de l’inverno semo dentro» in pieno, «come prima, più di prima».

3) Una delle iniziative che, a livello diocesano, bisognerebbe assolutamente riprendere e valorizzare è la collana «Presbiteri in comunione», pensata a suo tempo dal vicario generale mons. Piero Bez. Non lo dico pensando in modo utilitaristico alla diffusione di qualche mio testo, che pur potrebbe essere, ma allo strumento in sé, utile per più motivi; è sempre vero, infatti, che non è tempo perso quello dedicato alle relazioni vicendevoli. Quand’ero diacono, a Calalzo, alle domeniche sera partecipavo con i parroci del Centro Cadore ai loro incontri nell’una o nell’altra canonica; meritori dell’iniziativa erano don Lino Del Favero, di Calalzo, e don Elio Cesco, di Lozzo. Stavamo insieme un’oretta, sul dopo cena: si scherzava, si scambiavano pareri, si mangiucchiava qualcosa (i famosi bagigi), si recitava Compieta e ognuno tornava a casa sua più felice. A volte si condividevano e poi programmavano iniziative comuni, quali – per fare un esempio – la marcia missionaria da Pozzale a Pieve o, anche, gli incontri e ritiri dell’Azione Cattolica a Tai, nei quali spiccava sempre, per serietà e profondità, il papà di don Lino, uomo veramente cristiano. E ora? Sia quel che sia, meglio un’iniziativa in più che una in meno; abbiamo un così grande bisogno di non fare del presbiterio una comunità di isolati, a singoli o a gruppetti!

4) L’intenzione di fondare a Belluno un circolo culturale «Gregorio XVI» non è ancora diventata realtà, forse semplicemente perché chi la porta avanti è già sovraccarico di impegni. Eppure, bisognerà «arrivare al dunque», per tentare di valorizzare quel Papa in ciò che ha fatto di bene e, per il resto, come personaggio storico, con tutti i suoi pregi e difetti, come tutti. Si ha un bel coraggio a parlare quasi solo di papa Luciani, Giovanni Paolo I, e a mantenere un silenzio imperioso su papa Cappellari, Gregorio XVI. Questo non è fare storia ma servirsi della storia per fare i propri interessi e, fiutando che con Luciani si fanno piangere le anime pie, per cui sono invogliate a mettere una mano al portafoglio e fare delle buone offerte, mentre con Cappellari si aprono discorsi seri, che non si vogliono affrontare, creerebbero nemici e ben poche entrate come schei, allora si procede con l’uno sì, l’altro no. Non mi si dirà che un medico o un insegnante sarebbero seri se, nella valutazione di un degente o di un alunno, guardassero all’utile che ne può venire! Perché lo si fa con i Papi? Né la cosa è giustificata se, a portarla avanti sono delle strutture o persone del clero o diocesane; anzi: è peggio e più riprovevole ancora!

5) A proposito di vescovi da bastonare, moralmente, e scaldar loro il groppone con il manico della scopa (mi sia consentito di parlare alla spiccia, non voglio certo incitare alla violenza), molti avranno sentito della loro ultima scoperta dell’America: quella di cambiare una frase del «Padre nostro», quella relativa al: ne nos inducas in tentationem, che ad essi, imbevuti fino all’ultima goccia di teologia moderna, dava al cervello e alle labbra un tale fastidio che non ti dico. Oh, intendiamoci, per evitare dubbi perniciosi: la cambiano non perché ad essi, vescovi di quest’era sbandata, faccia piacere cadere in tentazione, né perché – quando mai? – vogliano persino manipolare le parole di Gesù Cristo; lo fanno perché ritengono che la gente sia piuttosto ignorante (il piuttosto è bontà loro), per cui è da farle capire che Dio non spinge in tentazione ecc. ecc. ecc. A questo punto perché non cambiano anche altre frasi, che al loro illuministicamente illuminato parere, sembra che potrebbero essere mal intese? Al posto di: qui es in Coelis, ad esempio, perché non mettere: qui es Deus? E, invece del: dimitte nobis debita nostra (che fa tanto pensare ai debiti, il che è inquietante) perché non usare il generico: dimitte peccata nostra, che usava anche Gesù («Ti sono rimessi i tuoi peccati»)? Soluzione che a lor signori potrebbe sembrare tanto salomonicamente saggia da entrare in una futura versione non più interconfessionale ma interreligiosa della Bibbia… E, poi, chi è che, a differenza dei debiti, si inquieta dei peccati? «Come mangiare una caramella», diceva uno, pensando ai suoi, pronto a scambiare per aquile le mosche degli altri.

6) Tra tentazioni e tentativi. La riprovevole iniziativa dei vescovi, segnalata al punto precedente, mi ha fatto riflettere su una sfumatura del verbo italiano tentare (forse più che sfumatura è una vera e propria accezione). Tentare non è solo, come si pensa di primo istinto, spingere una persona al male, lusingarla o sedurla per portarla ad azioni indegne; significa anche provare, fare un tentativo. In questo senso (che all’evidenza gli illuministicamente illuminati hanno disatteso) il «ne nos inducas in tentationem» può essere inteso e pregato con un sentimento molto vero, umano, concreto. Dicendo a Dio, che abbiamo riconosciuto poco prima essere nostro padre, la nostra difficoltà di procedere della vita senza cadute nel male, a tentativi, a tentoni, spesso un po’ ciechi, nostro malgrado, spesso incerti e nella possibilità di imboccare una soluzione o un percorso di vita sbagliati. Non è forse bellissimo questo dirgli: «Padre, non farmi trovare in situazioni difficili, ambigue, nelle quali possa, pur non volendolo, compiere del male»?

7) Ah, miserabili vescovi modernisti, come siete lontani dal cuore della Fede vera, insegnataci dai nostri santi genitori! Come siete diventati dei manager, dei tecnici della pastorale, anzi: di una pastorale che puzza tanto di immanentismo, di razionalismo e di ateismo! Sta a vedere che, tra poco, per diventare vescovi inventeranno corsi speciali di episcopal-management! E «chi di dovere» non guarderà più che un vescovo sia santo, quindi infuocato di Fede, Speranza e Carità, ma furbo, scaltro e canaglia!

8) In zoldano si dice: ignèro nel senso di «di nuovo, nuovamente». Si dice, in vero, da parte di quei pochissimi che ancora parlano lo zoldano, piccoli/grandi benefattori della comunità.

9) In zoldano esiste l’esclamazione: ósti nate, che mi sembrerebbe derivare dalla base da cui anche ostinato, ma ha il senso delle esclamazioni: «Insomma, santa pace, e poi cosa ancora?» o di altre simili.

10) In zoldano si dice: galivèrna, nel senso di «fumo intenso», perlopiù quando riempie una stanza («Che galivèrna avéo fat qua?»).

11) «Stille di redenzione» è un agile opuscolo, di cm 10,3 x 5 di altezza e 36 pagine (comprese le quattro che fanno da copertina), stampato a Belluno dall’Istituto Veneto di Arti Grafiche nel 1933. Riporta le preghiere del mattino e della sera, i comandamenti e altre cose utilissime per la vita cristiana quotidiana. Non ne è indicato l’autore, ma reca l’imprimatur del «Can. Petrus Rizzardini, Vic. Gen.» del 3 ottobre di quell’anno. Possiamo perciò considerarlo, per certi aspetti, una sua creatura. La nostra Biblioteca Antica ne possiede una copia che trascriveremo e divulgheremo non appena possibile.

12) Lunedì 28 febbraio, alle ore 17,30, le persone di Coi, Brusadaz e Costa erano state invitate dai sacerdoti della Val di Zoldo nella chiesa di Brusadaz (centrale) per la benedizione delle famiglie: «Le famiglie che desiderano la benedizione di Dio si incontreranno insieme per una preghiera comune e dare a questo rito l’importanza che si merita. Seguirà la S. Messa». Conclusione: è stato un fiasco ultra-solenne: dei tre villaggi si sono presentate solo sette persone, in rappresentanza di sei famiglie. C’è tutta una polemica: chi dà ragione ai sacerdoti e chi dà loro torto. Non vedo chiaro per il futuro; la Fede in Val di Zoldo sta diventando sempre più un elemento soggettivo, intimistico, per chi ancora ce l’ha, e socialmente sempre meno rilevante. Ogni confronto con i decenni passati mostra crolli di frequenza vertiginosi !

13) Con grande disgusto abbiamo visto il foglietto liturgico del 30 dicembre u.s., diffuso abitualmente nelle chiese della diocesi di Belluno-Feltre, di cui è direttore responsabile addirittura il vescovo emerito Giuseppe Andrich. In quel giorno si celebrava la festa della Santa Famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria. Ebbene, quel foglietto recava come immagine d’apertura (e unica), laica e vergognosamente tendenziosa, la raffigurazione di due genitori dal volto bianco con in braccio un bambino di colore scuro ossia africano, evidenziato rispetto ai genitori. Quest’atto, riprovevole oltre ogni dire, mi è stato fatto notare dai fedeli presenti alla S. Messa (io non me n’ero neppure reso conto) e sarebbe bene che una buona volta il nostro Vescovo si svegliasse dal suo comodo ma incoerente «lavarsene le mani» delle molte questioni che gli vengono rivolte e di fronte alle quali sta muto come un pesce. Non può sempre dire: «Non vedo, non sento, non parlo»; altrimenti faceva meglio a non diventare vescovo e starsene a fare il padre spirituale in qualche collegio di novizie. Già così facendo è chiaro che egli appoggia i propagandisti dell’integrazione mondialista, e porta avanti, di fatto, l’idea massonica della fraternità universale per natura, mentre Gesù Cristo ha fondato una Chiesa nella quale si entra per Fede e non per fraternità di natura. Oggi l’idea massonica va per la maggiore e parlare di Fede cattolica, che distingue e disunisce, suscita avversione e antipatie; ma se vogliamo essere sacerdoti e vescovi non dobbiamo forse fare questo? I sorrisetti e le strette di mano, Eccellenza, servono a poco, per non dire a niente: da Lei ci aspettiamo un comportamento molto e molto diverso da quello che ha assunto, altrimenti può sempre dare le dimissioni, come detto sopra! E noi Le vorremo bene egualmente e ancor più, perché vogliamo avere un vescovo che sia tale sul serio e sino in fondo e non uno che segue la regola del «non vedo, non sento, non parlo».

don Floriano Pellegrini

***