DON FLORIANO, Piccole osservazioni linguistiche e di costume

Già pubblicate il 23 ottobre 2010 sul «Notiziario del Libero Maso de I Coi» n. 101, divulgo nuovamente tre piccole osservazioni linguistiche, aggiungendone due inedite e una pubblicata già il 22 marzo 2011 sul n. 121 del detto notiziario; infine una del 1° febbraio pure 1011, con la correzione di due giorni dopo (nn. 111 e 112 del «Notiziario») e un detto ulteriore incluso.

L’abitudine dell’esprimersi al rovescio

Nel parlare abituale ci si esprima sovente in forma negativa, non affermativa. Questo è un modo di esprimersi comune, di cui non ci si accorge, finché non ci è fatto notare. Si dice, ad esempio: «No la va mal», quando si potrebbe dir meglio: «La va abastanža ben»; alla domanda: «Come stasto?», si risponde: «No pùele me lagnà», e perché mai sarebbe da lamentarsi?

Ho riflettuto su questo modo di esprimersi e sembra quasi che esso sia dovuto a tempi in cui, incontrandosi, parlando assieme, le persone sentivano anzitutto il desiderio di sfogarsi di qualche loro affanno. Ciò succedeva per lo più alla domenica, quando i membri dei vari villaggi e masi si incontravano alla messa parrocchiale (a Pieve) o curaziale (a Fusine, Gòima, Zoppè). Poi ognuno tornava alle sue case, con l’anima un po’ più leggera. Può darsi questa ipotesi non sia del tutto azzeccata, ma potrebbe essere che sia la spiegazione di questo modo di parlare “al rovescio”, in forma negativa (cioè con il non).

Con gli animali domestici si parla in italiano

Già da alcuni decenni, ho osservato che molte persone di Zoldo posto hanno adottato, senza che ci fosse alcun accordo, un modo particolare di parlare: quando si rivolgono ai loro animali domestici, parlano in italiano! Si rivolgono al gatto e al cane in italiano, ad esempio intimandogli: «Vieni qua!», e non: «Vén cà!». La cosa tante volte è veramente ridicola, se non penosa. Ma bisogna riflettere sul motivo per cui può essere sorta. Sembra quasi che l’animale domestico (il gatto o il cane) sia sentito come un estraneo da sé e, allora, ci si rivolga da lui in italiano. Non è questa una prova, molto forte, del fatto che si sente ancora l’italiano come un parlare forèsto?

Una poesia di Riccardo Rizzardini di Col

Sarebbe bello rintracciare una poesia scritta una settantina d’anni fa dal Ricàrdo de Cól, cioè da Riccardo Rizzardini di Col, che parla del suono delle campane al sopraggiungere d’un temporale. Cosa che fino a quarant’anni fa era normale e tutti, giovani e meno giovani, ricordano la Tàgia, cioè la sagrestana Anastasia Rizzardini Duanùž, che d’estate, quando il cielo si faceva cupo, si affrettava ad andare in chiesa a suonare la Pelegrina, cioè la campana grande della chiesa di San Pellegrino delle Alpi. Riccardo era fratello della Gégia, o Teresa, che ben ricordo. Nel 2010 aggiungevo: «Non sapevo, e l’ho appreso pochi giorni fa, che i nostri buoni vecchi erano convinti che i rintocchi delle campane «i spaca ‘l tenp», cioè, proprio materialmente, alzandosi verso il cielo rompessero le nubi, togliendo loro la forza di danneggiare quanto, da loro seminato e coltivato, stava crescendo nei campi. Anche questa credenza, se non l’avessi sentita, e sentita ripetere su esplicita domanda, non l’avrei immaginata». Ora aggiungo che tale credenza non è poi così ridicola come m’era parsa; mi è stato spiegato, infatti, che le vibrazioni acustiche nell’aria, hanno un qualche effetto, sia pur relativo, in quanto con la loro onda spezzerebbero altre onde che favoriscono il formarsi della grandine. Insomma, c’è sempre da imparare!

Calmarsi come un accucciare

Per dire, di una persona, che si è o si dia una calmata, si usa un implicito paragone con i cani, ossia si dice: «Se cužà du». È vero che si dice anche: «Se dà ‘na calmada», ma questa è un’espressione meno ladina ovvero più italianizzata.

Un detto che cita il paese feltrino di Lasen

Quando una persona parla sul serio, non per scherzo o ironia, si dice o, meglio, ancora qualcuno dice: «Al dis dasén come chi da Lasén». Chissà come è nato e giunto in Zoldo questo detto.

Favore chiama favore

«Ogni pan prestà va ben rendù», proverbio sentito pochi giorni fa a Forno; significa: «Ad ogni favore, bisogna corrispondere con un favore, qual segno di gratitudine.

Il desalà e il su drét come ‘n fus

Sul «Notiziario» n. 111 avevo scritto: «Desalà, parola sentita a fine ottobre e da pronunciare con la s come in rosso e non in rosa, significa “trasandato, disordinato”, soprattutto nel modo di vestire. Desalà, con la s come in rosa significa invece, come ovvio, “senza sale, insipido”».

Poi sul «Notiziario» n. 112 m’ero corretto: «Santa pace! Ieri ho annunciato la risurrezione editoriale, dopo tre mesi di letargo, e già mi sono inciampato in un fastidioso errore; non mi risulta, invece, che nostro Signore, dopo soli tre giorni [dalla risurrezione], sia inciampato in qualcosa, ma sia andato su drét come ‘n fus. Il mio inciampo o errore è stato questo: desalà nel senso di “trasandato, disordinato”, soprattutto nel modo di vestire, è da pronunciare con la s come in rosa e non come in rosso; e desalà, nel senso di “senza sale, insipido” con la s come in rosso, cioè giusto il contrario di quello che avevo scritto ieri, accidentina!

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