DON FLORIANO, Precisazioni sulla pala, di Tiziano Vecellio e bottega, a Zoppè di Cadore

Di don Floriano Pellegrini. Articolo del 2 ottobre 2007, ripubblicato il 27 luglio 2012 come comunicato n. 654 del Libero maso da I Coi. L’immagine della pala tizianesca è nell’articolo precedente.

In un articolo del 25 settembre, Musizza e De Donà, hanno voluto dire la loro anche sulla pala di Sant’Anna di Zoppè e raccontare della visita fattavi nel 1865, «nel pieno delle sue scorribande sulle orme di Tiziano», dal «grande» (dicono) Josah Gilbert. E’ spiacevole però rilevare come sono caduti in errore su due punti importanti e potrebbero così dar adito ai lettori meno preparati di venir ingannati. Affermano infatti che il dipinto è «opera della bottega» di Tiziano (se pur «probabilmente») e che raffigura, tra altri, l’apostolo Paolo.

Non ho intenzione di ripetere quanto è stato acquisito dal punto di vista scientifico nei mesi scorsi, limitandomi ad alcune pennellate.

Il committente dell’opera, Matteo Palatini, era un personaggio cadorino di primissimo piano. Di lui, nel suo recente libro Alessandro Sacco si è occupato alle pagine 15 e seguenti, ricordando come solo lui e il nonno di Tiziano, Conte, seppero opporre una virile resistenza all’imperatore Massimiliano, che metteva «tutto il paese (cioè il Cadore) a fogo e fiamma». Del Palatini si era occupato, ancora nel 1947, anche lo storico Giovanni Fabbiani, mettendone in evidenza il ruolo centrale nella resistenza cadorina all’invasore tedesco. Con la piena comprensione (finalmente!) del legame vitale tra il Palatini ed il suo maso di Zoppè, tale comunità e il suo territorio vengono a collocarsi, all’interno del Cadore, in un contesto storico di ben più solido spessore. Non sarà più lecito immaginare un territorio di Zoppè quale appendice e semplice periferia del più vasto Cadore, ma un tutt’uno con esso, nel quale viene a trovarsi inserito, già da quegli anni iniziali della sua storia, con una qualche rilevanza, i cui meriti essenziali sono da attribuire proprio a Matteo Palatini.

E, ciò, anche in considerazione che la pergamena del 1528, con il disposto testamentario del Palatini, sinora presa troppo poco in considerazione dalla storiografia locale, non riguarda solo Zoppè, ma lo stesso capoluogo, Pieve di Cadore, dove il testatore viveva e che egli coinvolgeva, secondo vari profili, nelle sue disposizioni. Vi è, ad esempio, l’ordine di ammodernare una struttura ospedaliera, situata vicino alla chiesa arcidiaconale, che fa intendere qualcosa sulla presenza delle strutture sanitarie nel capoluogo cadorino. Ma, ripeto, sinora nessuno studioso (che io sappia) ha esaminato compiutamente tale, importante documento.

Torniamo alla tela di Sant’Anna: è evidente che la scelta dei personaggi raffigurati, e in particolare della Beata Vergine, come pure la loro disposizione a schema ogivale sono spiegabili solo avendo presenti le parole del disposto testamentario. Ad esso Tiziano si sentiva, e in effetti era, per molti aspetti moralmente vincolato. Non fosse altro che sulla scia del ricordo del nonno Conte, o dell’affetto e dei profondi vincoli che legavano la sua famiglia (nel testamento abbiamo, tra l’altro, la documentazione dell’onomastico «Vicellio») e quella del Palatini. E’ poi da chiedersi, facendo un confronto con quello che allora si poteva comperare, se i due ducati, vincolati dal Palatini all’esecuzione del dipinto, fossero bastati a pagare oli e tela utilizzati. Con la svalutazione, anche allora esistente, e facendo un confronto con altri documenti, m’è sembrato di capire che per tale cifra si potevano acquistare, ad esempio, alcune forme di formaggio, non più! E, dunque, chi nella bottega del Tiziano avrebbe avuto la strana idea di lavorare, rimettendoci di persona?

Logico invece dedurre, come diversamente a questo punto non si può, che, sì, Tiziano volle farsi aiutare dai collaboratori nella stesura del dipinto di Zoppè, come del resto faceva assai di sovente. Pur tuttavia, la genialità della disposizione delle figure, il loro preciso simbolismo, nonché la scelta materiale di una tela superiore a quella richiesta dal committente e l’utilizzo di materie cromatiche di pregio (senza dire dell’incertezza iniziale nella disposizione del capo della Vergine, come è stato scoperto) sono sufficienti attestazioni che provano o, se si vuole, confermano l’intervento diretto del Maestro nelle fasi essenziali e quantomeno, anche di sua mano, in alcuni tratti particolari. Stupisce, pertanto, che dopo la segnalazione di tutto ciò, qualcuno continui ad attribuire l’opera di Zoppè alla bottega. A meno che l’articolo ora stampato non fosse pronto prima della segnalazione delle scoperte archivistiche e direttamente sulla tela, nel corso del restauro.

Per quanto riguarda la figura di San Matteo, che ancora, erroneamente, si confonde con un San Paolo, pur non avendo la tipica spada del martirio, non serve dica altro: quanto già scritto sulla simbologia del dipinto, è sufficiente a provarlo.

Per il testamento di Matteo Palatini, cfr.:


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