DON FLORIANO, Ricordo della maestra Giovannina, la mia maestra

Un banco di scuola, in formica (allora una novità e un lusso), con il buco per infilare la bottiglietta dell’inchiostro o calamaio.

Di don Floriano Pellegrini

Non credo d’aver mai detto, parlando di lei: «La Giovannina» o: «Sa femena del Mario de Palafavera», come facevano altri per indicarla. No, per me era sempre: «La maestra, la maestra Giovannina». Mi dispiaceva che altri non la ricordassero per la sua qualifica professione di insegnante, che aveva caratterizzato la sua giovinezza fino alla scelta di mete su famèa con Mario Rizzardini Ogióin, dai Coi. Mario era una persona lungimirante e, assieme ai familiari, aveva avuto l’intelligenza e il coraggio di costituire una società di impianti di risalita, per lo sci, a Palafavera. Era un’attività alla quale allora in Zoldo nessuno ancora pensava e che, pure, sarebbe diventata una realtà imprenditoriale di prim’ordine, nonostante i problemi incontrati qualche anno fa; oggi senza Palafavera non esisterebbe neppure il famoso Comprensorio sciistico del Civetta.

La maestra Giovanna Favretti è stata la mia prima maestra, nell’anno scolastico 1962-63. Aperte negli ultimi mesi dell’anno scolastico precedente, le nuove scuole di Coi rappresentavano il superamento della fase storica delle lezioni in una o due stanze, prese in affitto, d’una casa privata. In paese si respirava gioia e vita e la maestra Giovanna era un punto di riferimento, oltre che per noi alunni, per mamme e papà, per tutti e aveva questo di bello: che si faceva amare da tutti. Il nuovo fabbricato scolastico era diviso in due spazi: uno (il migliore, orientato a sud-est) per gli alunni e un secondo, che faceva da appartamento per la maestra. Nel suo modo di fare, non era né troppo severa né troppo permissiva ma seguiva un metodo didattico suo: vivo, creativo, adatto per noi. Ci insegnava con un non so che per cui non sentivamo neppure che c’insegnasse, che ci facesse da maestra; no, ci sembrava che facesse semplicemente quel ch’era giusto fare e, intanto, eravamo felici di apprendere, quasi bere dalle sue labbra o assorbire dalla sua giovane persona, quello che ci trasmetteva.

Un giorno si trattò di piantare dei bulbi nell’aiuola davanti alla scuola, un altro di cuocere delle patate all’aperto, sulla brace; un’altra volta facemmo una passeggiata verso i mulini, due dei quali allora erano ancora funzionanti, oppure andavamo ad esplorare le prime radure del bosco, che è poi il lariceto sovrastante la scuola, con la sua misteriosa sorgente de La Cisterna. Aveva una cinepresa, un mezzo tecnico per allora eccezionale. Ci filmò mentre facevamo l’altalena su un ramo, lungo fin quasi a terra, d’un larice; quel poco che bastò per illustrarci, una volta rientrati in aula, i pericoli di quell’antico ma imprudente divertimento. Ci insegnò a distinguere i frutti selvatici commestibili da quelli velenosi. Dalla cottura delle patate ricavò la spiegazione del ciclo dell’acqua e del vapore; dall’osservazione dei crochi e da ogni cosa ricavava una spiegazione. Il filmato prese un nome: «Le quattro stagioni». Disgrazia volle che andasse distrutto nell’alluvione del 4 novembre 1966, a Forno, in casa delle zie, dove aveva portato la cinepresa.

I libri? Certo, ci insegnò ad amarli (e chi potrebbe mai dire che non lo fece, visto che poi ne sono sempre stato appassionato?), ma nel suo metodo didattico erano una specie di aggiunta. Metteva sempre in primo piano la realtà e ci insegnò ad amarla; ad amare la verità, la libertà, la dignità; e, poi, a cercare nei libri, fino a trovarlo, il loro senso, per conoscere, e quindi amare ancor più, questi valori sublimi.

Giunse l’inverno del 1962. Bambini e bambine della pluriclasse arrivavamo a scuola con il cappottino, le scarpe e le calze piene di neve, intirizziti dal freddo. Ci aiutava a rimetterci in forma per la lezione della mattinata e spesso, anziché farci stare al banco (ancora con il calamaio infilato in alto, nell’angolo destro, e si scriveva con penne dal pennino metallico), ci faceva mettere in crocchio attorno alla stufa. Si respirava gioia, pulizia, voglia di vivere e di imparare; si usciva dalla scuola carichi non solo di idee nuove ma di più grande amore.

Vorrei dire ancora molto ma, essendo questo un semplice articolo, devo fermarmi. Ho sofferto nel vedere la Maestra star poco bene; ma anche nella sofferenza sentivo che era sempre se stessa e che mi guardava con un occhio speciale, come in quegli anni lontani, e come mi dicesse un suo grazie per amarla, per amarla sempre. Ma come avrei potuto non farlo? Quel grazie immenso glielo dovevo, però, e devo io. E non c’è stato un solo momento nella vita, pur essendo passati tanti anni, in cui non abbia pronunciato in me, pensando a lei, questa parola umile e grande: «Grazie!». «Sì, grazie, cara Maestra! Il tuo alunno di un tempo non cesserà mai di dirti grazie!».

Val di Zoldo, pratoline
Il mitico primo giorno di scuola

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