PARMA, Dilucidazione al dubbio intorno due opinioni del N.H. D. Tiepolo, II

Nella foto: Case della Venezia che abbiamo nel cuore.

Perimetro de’ Veneti estuari al tempo dei Romani.

Essendosi da noi tracciato il margine interno de’ Veneti estuarj da Fossa Clodia a Lizza Fusina, progrediremo ora a segnarlo fino ad Altino; d’onde per Concordia ad Aquileja lo determinava già la via Emilia Altinate, che le nostre lagune lambiva, e dove ogni spazio di terreno, quantunque breve, rimanesse da quella via alle salse acque veniva coperto da tratti della Selva Fetontea, folta di altissimi abeti. Que’ tratti di selva prendevano anche nome dai vicini luoghi, onde Clorisea, Altinate, Caprulense si dicevano le selve procedenti sul margine da Hatria e Fossa Clodia – ad Altino, a Fesolo, a Caprule, alcuni avanzi della quale tuttodì si incontrano presso Conche, Bondante, non che a Zaccorello, Tessera, Campalto; e Marziale la ricorda nell’epig. 25 del lib. 8.

Aemula Bojanis Altini Littora villis

Et Phaetontei conscia sylva rogi

Qua eque Antenores Dryadum pulcherrima Fauno ec.

Senza di quelle selve le acque del Bottenigo, e di altri scoli, avrebbero impaludato lo spazio della laguna alla via Romana, la qual via da Padova veniva ad Stratum ad Nonum o Mestre accostandosi colà alla spiaggia per Duodecimum ad Texaria – ad Tertium quindi ad Altinum. Rimane per tal modo determinato fra le marittime borgate patavine, le selve e la via Emilia tutto il Perimetro interno degli estuarj, da Fossa Clodia, per Altino e Concordia ad Aquileja. Vediamone l’esterno.

Analizzando il passo di Plinio e quello di Livio, per esterni lidi da Brondolo siamo giunti a quello della foce di Prealto (o Malamocco); progredendo ora ad Oriente del lido stesso i Romani sulla sua estremità giungevano ad Portum. Così chiamavanlo per Antonomasia, perché porto era dell’antica, doviziosa, commerciante Altino: in esso  Tavola Peutingeriana segna la penultima stazione fra Ravenna ed Altino, lunghesso il veneto esterno littorale; e dopo di esso si passava pe’ larghi lidi altinati alle foci del Sile e della Piave fino a Jesolo. Ora su questi esterni lidi, che son quelli oggidì di S. Erasmo – delle Vignole – di Lio Maggiore – del Cavallino ec. in saluberrimo aere lib. 8 C. XV. Vitruvio. Ab oriente jucunditatem Jonii littoris – in ameno sito (Cassiodoro lett. 24) in ubertoso suolo fra il Sile e la Piave formavansi i ricchi voluttuosi naviganti Altinati le deliziose lor ville, emule delle Bajane.

A torto adunque il nostro Autore accusa il Filiasi – pomposo descrittore di ville – di confondere le spiagge del territorio Altinate colle Isole dalle quali sorse Venezia; poiché il Filiasi non cadé mai in quella confusione; ma anzi a pag. 294. Lib. III. Cap. II egli divide l’agro altinate in alto e in basso, in continentale ed in marittimo, nel qual ultimo comprende egli anche i lidi marittimi che lo separavano dal mare; ma que’ lidi erano esterni, e non sul margine del continente, perciò Marziale, indicando quelle ville le disse: Altini littoras villis, appunto perché sorgevano sull’estremo littorale di Altino; ed eccole pertanto in aprica plaga, e poste a mare, godervisi di tutti que’ vantaggi di sito, che godevano le ville Bajane; ed anche assai meglio che se quelle ville state fossero sul margine interno presso di Altino. Non però solo il poeta Marziale, ma anche il giovane Plinio celebrò quelle ville, e con Columella, le viti, e le lane, e i buoi. Quindi scrivendo a Massimo (Epist. 16. Lib. VIII.) lo assicurava di aver gustato nella villa di Maturio tutte le delizie della vita, della sontuosità, del gusto, e del sapere. Sente pur col Filiasi anche il Tentori p. 46, che quegli ameni esterni littorali prima del tempo di Cassiodoro, erano culti e popolati, e che in essi trovar si dovevano le deliziose ville de’ ricchi di Altino.

Dopo que’ littorali e la Piave mostravasi al mare la selva Caprulense, e vi davano il nome le selvatiche capre che vi si cacciavano; veniva quindi il suo estuario; al capo occidentale del quale, presso l’esterior lido lo sbocco della Livenza (ora Livenza morta) o porto di Uderzo, che con romano nome dicevasi Portus Liquaetiae vel Opitergi. Sull’opposto capo orientale del lido stesso giaceva l’antica Capris, che poi prese anche il nome di Petronia, quindi di Caorle. Si apriva per essa allo sbocco del Lemene in laguna il porto Romatinus, o di Concordia. Bernardo Giustin. Lib. III. Histor. ec.

Noi abbiamo intanto in Caprule, non solo un antico lido esterno, ma ancora nell’interne sue acque l’estuario, nel quale stanziava una squadra leggiera della classe romana a presidio delle vicine colonie. Quel sito ci venne inoltre ricordato da Plinio (lib. 1, c. 10) Concordia Colonia, flumen et portus habet Romatinus. Che poi quell’antica Petronia o Caprule posta all’estremità di quel porto, e di quel lido, attiguo alla stazione della squadra romana, con tanti vantaggi di sito ai servigj, al commercio, ed alla difesa di Concordia, per quattro secoli dalla fondazione di Concordia, e per sei dalla occupazione romana, si rimanesse trascurata e deserta; ed attendesse tutto quel tempo a popolarsi, unicamente perché vi giungessero i primi Nobili di Concordia, penso che alcuno nol vorrà credere. Che se ad onta di tanta evidenza, ancor vi fosse chi sia restìo a riconoscere l’antica importanza di quel lido, e delle sue genti, s’affollano a convincerlo molte lapidi romane ivi trovate, che attestano colà numerosa la famiglia di Licovi, valorosi soldati; destri i marinaj che equipaggiavano le liburniche stanzianti presso quel lido, e sopra ogni altra la denominazione Clypeo, Marte ecc. Né vale il dire, che quelle lapidi vi saranno state trasportate da Concordia; imperciocché essa ne era per nove miglia discosta, presso la via Altinate, a qualche distanza dal mare sul Romatino; e di cui il porto trovavasi alla estremità orientale del lido di Caprule, dove erano i quartieri delle liburniche, a cui quei nomi si riferivano. Non vi sarà però chi creda, che quei di Concordia in fuggendo su quel lido dalle spade degli Unni, abbian voluto occuparsi del trasporto di quelle lapidi; e nemmeno rintracciarle dopo quella catastrofe, rifugiatisi in Caprule, disgiunti dall’opposto continente per acerrime guerre ed assidue discordie. Per tutto questo, mentre ogni ragione persuade che esse appartengono al sito in cui si rinvennero, ed a cui si riferiscono, diviene affatto gratuita e senza alcun fondamento l’ipotesi, che vi sieno state trasportate da Concordia; né perché alcune lapidi di Altino o di Aquileja si rinvennero in più luoghi, trasportatevi in posteriori tempi dalla curiosità archeologica, o da singolari circostanze, si dovrà argomentare che quelle ritrovate in Torcello ed in Grado con note caratteristiche di quei luoghi ad essi non appartenessero, come a Caorle le proprie.

Delle lapidi di Grado presto ci occuperemo. Parlando ora del suo estuario, che undici miglia di basso terreno, interseccato da canali, da Conche o sostegni, da deviazioni de’ fiumi, per mezzo de’ quali i Romani comunicar facevano fra di loro i due stuarj, il Tagliamento giungeva al mare. Tolomeo ne segna la latitudine e la longitudine: Tiliamenti fluminis ostia. Quel terreno poi limitato al settentrione della via Emilia, che passava per Apicilio ad un miglio dalla Tisana, quindi ad tertium ad undecimum ad Marianum (Marano) e ad Ostro dalla selva de’ Pineti, di cui tutto dì se ne scorgono gli avanzi, in quel basso terreno, per un artefatto canale, si giungeva al lido delle Basiliche nelle acque Gradate. In esse l’industria e la ricchezza degli Aquilejesi misero tutti quei liti a profitto; ma sopra ogni altro quello di Grado che prese nome dalle marmoree Gradinate d’imbarco, presso cui si ancoravano le grosse navi della squadra romana, e le mercantili degli Aquilejesi.

Né quelle gradinate fondar potevansi intorno ad Aquileja, che Plinio ci dà dodici miglia lontana dal mare (Lib. 16. C. 38), e Strabone 8, e qui rispetto ai primi si vuol intender dall’esterior lato de’ suoi lidi, rispetto al secondo dall’interiore. Le sole acque del Natisone (vulgo Natiso) bagnavano le mura di quella città (Strab. Geogr.) Deinde Natiso non lungi a mari attingit Aquilejam. Non longe a mari, cioè non molto lontano dal mare, ma però lontano dal suo sbocco in laguna, il Natisone toccava Aquileja. Ed altrove lo stesso Strabone lib. 1. Ad eam (cioè ad Aquileja) adverso Natisonis omne navigantur sexaginta stadia, che sono appunto le otto miglia dal lido esteriore presso del quale egli usciva. Anche Erodiano nella descrizione dell’assedio di Massimino, dimostra Aquileja d’ogni intorno circondata da sodo terreno, ed in egual modo ce la presentano gli storici posteriori narrandoci gli assedj di Giuliano o di Attila. Conchiude quindi il Tentori (pag. 42) Aquileja non fu giammai circondata dalle salse acque, ma fondata in sodo terreno nel continente in Italia.

Diviene perciò gratuita, e da nessun valido ragionamento appoggiata l’opinione del Co. Tiepolo: che le mura di Aquileja fossero bagnate dal mare, vi avesse quella città marittimo porto, ed in esso si fondassero le marmoree gradinate.

Se le navi romane non giungevano in Aquileja, ne viene erronea anche l’altra opinione che vi avessero cantieri – ma sogghigna il Nob. Autore – che, stabilendoli a Grado cercavansi solitudini come gli antichi monaci. Noi diremo che anzi ricerca vasi idoneo sito per l’approdare, stanziare, e così ai restauri, come agli altri servigi marittimi provvedere. Né tenui distanze per acquistarvi le materie prime in terra ferma poteva dar tale – disturbo – da rinunziare a tante opportunità.

Oltre di ciò quelle materie, e soprattutto il legname vi scendeva in parte colle zattere per li fiumi che tutti fino a Grado per manufatti canali, comunicavano, ed in parte si ripetevano dalle vicine coste dell’Illirico e della Liburnia. La fabbrica pur della Porpora, comprovata dalle lapidi in Grado e dalla sua opportunità, riconosciuta dall’Amati – de restitutione purpurarum (Giorn. Encicl. Vicenza ottobre 1786) che quei lidi somministravano abbondanti Conchiglie per la miglior porpora, si vorrebbe a torto dal Nob. Autore ricusare a quell’isola, per fissarla in Aquileja. Ne insegna il Bertoli, ed altri, che ove le lapidi si riferiscano a cose del sito, in cui si rinvengono, ad esso appartengono. Così egli (pag. 346 e seg. Antich. di Aquil.) appropria a Grado quelle ivi rinvenute dei militi delle legioni, de’ Cadusiani delle Coorti Armene, de’ Purpurarj, le dodici votive, e le altre che mostrano le genti in Grado stanziate od ivi naviganti. Né perché cessasse quella fabbrica ne’ calamitosi tempi del decadimento dell’Impero, della invasione barbarica, ne’ quali, non ad arti di lusso ma appena a lavori, che procacciassero sussistenza, si impiegavano i nostri padri, inferir se ne deve che nelle splendide epoche romane, ella non vi fosse esistita. Per consimile ragione, l’esistenza del Collegio de’ Purpurarj in Grado, non escludeva che i mercatanti di Aquileja, da quel grande emporio, negoziassero così ricca merce, e per tutto il mondo la diffondessero.

Quindi il luogo dell’approdarvi le grosse navi aquilejesi, e la stazione della squadra romana eran necessariamente nell’isola di Grado, che appunto per le gradinate di imbarco ivi costrutte, preso ne aveva il nome, e dato lo aveva alle acque gradate. Che poi l’accesso dal mare a quelle acque, o lagune di Grado, per condursi a piaggia abbia variato di condizioni, di aperture, o di Fuose (per squarciamenti di parte dell’esterno lido, prodotti da burrasche australi, o per congerie di antichi ingressi generate da bufere boreali, sommoventi e sollevanti le sabbie del mare), e che per tali cambiamenti di Fuose gli scrittori ne abbiano lasciate oscure tracce, e che lo stesso Filiasi sia rimasto incerto di quegli ingressi nell’estuario gradense; tuttociò non toglie alla vasta isola di Grado l’essere stata opportuna nell’approdar delle grosse navi, servienti al commercio od alla sicurezza di Aquileja. Alla quale opportunità di sito non fallivano mai, fosse per più antica o più lontana, o più remota o più vicina Fuosa, che aprisse ad esse l’ingresso nella gradense laguna.

Le grosse navi, che a Grado giungevano, vi permutavano le ricchezze orientali coi metalli, coi generi, coi prodotti della Germania, della Pannonia e di gran parte dell’Italia; e le squadre romane presso quelle gradinate stanzianti, vi avevano nell’isola cantieri, caserme, magazzini ed altri stabilimenti occorrenti al servizio commerciale, marittimo, militare. Da quel grande porto o rada passavano coi minori battelli le merci, rimontando il Matisone, all’Emporio di Aquileja, e di là, per le vie militari, su tutto il continente.

Né col variar delle Fuose ne’ lidi esteriori, Grado poté mai perdere i vantaggi della sua estensione, e del suo sito cotanto idoneo alla difesa della colonia ed alle sue relazioni con tutti i mari. Si acqueti quindi il Nob. Autore sugli incerti cenni del variato porto (o ingresso nella laguna gradense) li attribuisca alle vicende delle Fuose avvenute negli esteriori suoi lidi, e si dispensi per tal mezzo, onde secondare il Filiasi, di Trasportare qua e colà l’ampia isola di Grado, siccome con sarcasmo vorrebbe credere che gli sarebbe stato necessario di fare. Onde viepiù tranquillarlo, alle autorità ed ai fatti finora addotti, noi ne aggiungeremo degli altri. I possenti Aquilejesi, che di ogni opportunità di sito profittarono onde agevolare le loro comunicazioni per l’isola di Grado col mare, costrussero una Diga carreggiabile, lunga un miglio, la quale attraversando la laguna, conduceva all’isola di Grado, e di cui tuttora si riconoscono gli avanzi. Quella Diga pur ci ricordano il Bolland (Act. SS.), S. Ambrogio (Serm. 40. T. II. Pag. 450) nel martirio de’ Ss. Aquilejesi Canzio, Canziano, e Canzianella. Per quella via Paolo Diacono racconta, che nel 664 Lupo Duca del Friuli sorprendesse Grado con uno squadrone di cavalleria; e lo stesso Cronista Dandolo conferma non solo quel fatto, ma soggiunge altresì, che nel Gradense lido di Morgo esistesse: quoddam templum Paganorum in honorem Bethel (o Bellem) supra contiguum litus (in Cron.), tempio che fu poi da’ Veneziani dedicato a S. Pietro, e convertito in Monastero di vergini.

Si può dopo di ciò sperare, che il Nob. Autore vorrà concedere, che le lapidi le quali in Grado si rinvennero votive a Belleno, o Apollo, al Dio degli orti, e le altre ricordanti gli abitatori di quei lidi, ed individui delle ciurme, ivi stanzianti, e purpurarj, loro appartenessero.

Dopo di aver allegati gli storici documenti sui quali il Filiasi fonda le proprie deduzioni sul sito di Aquileja lontano dal mare, e sull’idoneità dell’isola di Grado, onde tenerla in assidua comunicazione con tutti i mari, e sul nome che l’imbarco di quell’isola diede alle acque del proprio estuario, potrà il Nob. Autore ancora tacciarlo di vane congetture? Vantare le proprie asseverante di fatto? E quali son esse? Cronisti di molti secoli posteriori, indotti ed incuriositi delle Storie romane, ed unicamente premurosi di narrare le cose in parte loro tramandate dai Veneziani, che formarono nelle lagune nuova nazione, ed in parte da essi presente, onde ordire in un qualche modo la serie cronologica di quella nazione. Questi però tacendo la condizione delle nostre isole e lidi a’ tempi Romani, non tutti escludono che vi avessero antiche genti; anzi il Sagornino, Bernardo Giustinian, e lo stesso Andrea Dandolo in un qualche modo le accennano. Costantin Porfiro-Genita enumerando ventinove isole e lidi sugli estuarj Veneziani nel principio del X secolo, molti ne ricorda con Romani antichi nomi già lasciati da Strabone e da Plinio, e da Livio; e scrive di Grado Cogradum ubi stretropolis magna est. Dal silenzio perciò di quei Cronisti sulle antiche cose delle isole e degli esterni veneti lidi, indurre non si può che fossero essi ai tempi dei Romani trascurati e deserti. Si dee anzi assicurarsi che gli industri possenti Aquilejesi, i quali scavarono il canale di Anfora e traversarono con una Diga la laguna fino a Grado, onde penetrare per più vie in quelle acque, e che nel lido esterno di Morgo eressero un tempio a Belleno, siensi giovati dell’isola di Grado per loro immenso traffico, profittando della stazione della squadra romana che in essa isola lo proteggeva. Né v’ha alcun ragionevole argomento di lasciar l’isola di Grado per sei secoli oziosa, abbandonata, senza nome, e deserta; e tuttociò unicamente, affinché, alla distruzione di Aquileja, e vita, ed azione, e grande movimento, ed importanza, e nome acquistasse ad un tratto dai soli nobili, che dal continente vi si ripararono.

Il De Monacis poi (pag. 7) ne accenna, che non in sito deserto, ma in paese da essi frequentato, gli Aquilejesi fortificarono in Grado un castello, ed il Sagornino rammenta quell’isola prima di ogni altra, quemadmodum antiquae Venetiae Aquileja ita et ista totius novae Venetiae caput est.

Noi però termineremo con essa il Perimetro de’ Veneti estuarj.

Condizione delle isole interne delle lagune all’epoca romana.

Nell’aver documentato coll’autorità de’ Romani e de’ Veneti scrittori lo stato degli estuarj nostri innanzi al V secolo dell’era volgare, ci confortiamo a credere di aver renduto un gran sevigio al Nob. Autore. Egli per tal mezzo è dispensato di far uscire ad un tratto del mare, quasi a colpo di verga magica, littorali esterni, ed isole in laguna, all’atto di accogliervi l’aristocrazia continentale, perché ogni cosa vi fondasse, innalzasse e per sempre reggesse, ché ben più ardua impresa gli sarebbe stata, che far uscire Pallade armata dal cervello di Giove.

Creda pure che popolati erano quelli esteriori lidi, dalle aperture dei quali avevano uscita in mare i nostri fiumi presso i porti di Fossiones, Brundulum, Edromen, Prealtum-Portum, e per li quali mantenevano le loro comunicazioni marittime e Ateste, e le due Clugie, una delle quali con più antico nome si chiamò Fanolandia, e le splendide città di Patavio e di Altino, empori di ogni ricchezza, manifattura, industria ed arte. Immenso era il loro traffico, ed il bisogno di tutte le agevolezze e comunicazioni per mezzo della laguna col mare. I litorali Filistini, Matemauci, l’isola Popilia, le Realtine ed il gruppo delle altre maggiori servivano loro di deposito alle merci, di cantiere al naviglio, di comodo e di piacere ai ricchi ed ai negozianti; Torcello, Mazzorbo avevano i nomi romani di Denium, Dirceum, Maiborgum, innanzi che nuovi ne assumessero nel V secolo e. v., e si chiamavano anche contrade, siccome quelle che facevano parte di Altino stesso (Gall. lib. I. Cap. 40. 168). Il fertile loro suolo, la loro spaziosità le rendevano care ed utili agli operosi Altinati; né v’ha alcun ragionevole motivo per ricusar ad esse le testimonianze delle lapidi, de’ monumenti, di ruderi romani in quelle, e in altre isole rinvenuti. Anche il chiariss. Cicogna, benemerito illustratore delle patrie iscrizioni, ci ricorda i due volumi autografi lasciati nell’anno 1770 alla Marciana del P. Rocco Curti, il quale alle iscrizioni memorabili raccolte da Giorgio Palfero, ne aggiunse molte altre ritrovate nelle escavazioni fatte, indicanti il soggiorno di antichi popoli nelle nostre lagune. Vedi Cicogna Iscrizioni Venete Fasc. I. Pr. pag. 12.

Molte pure delle isole Realtine ebbero, ed alcune conservano ancora, nome romano di Prealtum, Olivolum, Braida, Spina, Lemonium, Geminae. Il Olivolo la tradizione ha tramandato il castello della Piccola Troja; nelle Gemine i templi sacrati a Castore e a Polluce. Alcuni monumenti e costruzioni romane in quelle isole furono scavate fino a’ nostri giorni, né fondato è l’argomento che ne vuol dedurre dalla profondità di quegli scavi il Nob. Autore, quello cioè che le nostre isole, se antiche, sarebbero state sommerse dal mare nel suo innalzamento. imperciocché, quantunque sia dimostrato dall’ingegnoso Abate Zendrini il livello del mare innalzarsi nei nostri estuarj di pol. 3 lin. 11 per ogni secolo; simultaneamente però, mercé le costanti congerie, e per la mano degli uomini, s’innalzarono gli esteriori lidi, le isole ed i cumuli della laguna; e sebbene la confessione sotterranea della chiesa di S. Marco, fondata, già dieci secoli, in asciutto, sia ora invasa dalle acque salse; pure la sua gran piazza e tutta la città sussistono, e si innalzano sempre sopra il fiotto marino. L’abbandono dell’anno 825 della chiesa di S. Agata in Grado null’altro prova, contro l’antica esistenza di quell’isola, la quale ci conservò traccie romane, accolse tutta la popolazione della più splendida colonia, e divenne la Metropoli di tutte le Venezie; se non che quella chiesa fu innalzata sopra non sode fondamenta, od in sito depresso; non già che quell’isola non fosse anticamente esistita, e che il mare dovesse coll’isola ingojarla.

Nuovo argomento di avere popolati anche gli esteriori nostri lidi ci somministra la Tavola Peutingeriana. Essa ci contrassegna ne’ loro porti le stazioni de’ navicularj pel servigio de’ corrieri, i quali schivando il lungo giro della via Emilia, per la marittima si rendevano rapidamente da Ravenna ad Altino. passati li sette mari, giungevano colle barche presso i nostri lidi alla stazione di Fossis, quindi a quella di Ebron, poscia varcate le altre di Minor Medoac, Major Medoac, pervenivano ad Portum, quindi ad Altino, e di là per la terrestre via a Concordia e ad Aquileja e nell’Illirio. Per le sopra narrate stazioni tennero la marittima via colle loro corti gli Imperatori Massimo e Diocleziano; e da quelle stazioni i popoli festeggianti, coronati di alloro, accolsero i Nunzj recanti celermente a Ravenna la testa dello sconfitto Massimino. Si creda ad Erodiano, che nel Lib. VIII (c. 6, pag. 225, Patavii 1685) così scrive: Equites, qui Maximini caput ad Roman ferebant magno studio accellerantes, patenti bus ubique portis ac laureata Populorum frequentia exceptis, stagnis, paludibusque inter Altinum et Ravennam enavigatis Maximum in urbe Ravennae invenerunt.

Qual maggior prova, che fin dall’anno 238 dell’era cristiana grande era la frequenza dei popoli su quei lidi!!!

Ne’ due secoli susseguenti, colla maggior attività degli abitatori delle lagune, si accrebbe anche il loro numero, che viepiù si aumentò per la persecuzione de’ Cristiani nel continente, poscia per la divisione dell’impero, quindi per la rivalità degli Imperatori, finalmente per la loro debolezza che animò i barbari ad invadere l’Italia.

I Veneti, sempre fedeli agli Augusti, nell’anno 425 e. v., alla morte di Onorio, l’impero essendo usurpato da Giovanni, colle proprie barche e coi loro marinaj tragittarono pegli esteriori lidi la fanteria e la cavalleria dell’esercito Teodosiano, capitanato da Aspare, e inaspettato il condussero al riacquisto di Ravenna (Olimp. in Cron. – Socr. lib. […] 30). Né certamente così numeroso naviglio avrebbero allora i Veneti equipaggiare e somministrare all’impero, se le loro isole non fossero state anteriormente abitate da industri popolazioni, e gli esteriori lor lidi da spesse genti atte ai servigj del mare.

Le stragi rinnovate da Alarico e da Radaguisio, avevano costretto molti abitanti della terra-ferma a ripararsi presso i loro concittadini nella laguna. Fedeli pur essi all’impero continuarono la loro civile relazione colle propinque Colonie romane; né da essa cessaron del tutto gl’insulari, che cominciar non potevano, con qualche ragione di diritto pubblico, una distinta associazione politica, se non quando per la strage di Attila, le vicine città furono nel 452 arse e distrutte, e gran parte di quegli abitanti cacciati dalle lancie degli Unni fuggirono ne’ nostri estuarj. Quindi coll’occupazione dell’Italia compiutasi da Odoacre nel 476, cessando del tutto l’impero Romano in occidente, cessò pure ne’ Veneti la sudditanza ad esso, e pur di nome come di fatto si digiunse la marittima dalla terrestre Venezia. Così la nuova nazion Veneziana ebbe principio negli estuarj colle sue isole ed esteriori lidi, dal Timavo all’Adige.

Concludiamo adunque, che antiche furono le isole ed esteriori lidi della laguna, che i primi loro abitanti giovarono per più secoli alle ricche commercianti propinque città e colonie, mantenendo ad essi la comunicazione col mare; e colle dovizie dell’oriente, il cambio e lo smercio delle tante loro arti e manifatture, e de’ prodotti de’ loro territorj. Quindi cantieri, navi, marinaj, navicularj, purpurarj, salinaruoli, ortolani innanzi al 421 erano frequenti ne’ nostri estuarj, onde da’ fabbricatori di navi si fondò la prima chiesa di pietra in Rialto, e con essa nel 421 i Cronisti assegnano il principio della nazione.

Gli isolani provedevano ancora la terra-ferma colla pesca, colla caccia, col sale, colle frutta, coi legnami de’ loro lidi, afferivano sicure stazioni alle squadre romane, presti passaggi dai lidi a Roma, delizie in essi agli Altinati; ogni comodo, ogni servigio all’impero; ed ogni piacere, ogni vantaggio alle limitrofe città; lo stesso Bernardo Giustinian (lib. I, par. XII) scrive: che i cittadini di Altino come di Padova s’avessero casamenti sparsi nelle lagune, ai quali si andassero, richiedendolo il tempo dell’anno, per cagione di spasso.

[continua]

Nella foto: Pescatori di Venezia, nel 1870 circa.

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